E così, a quanto pare, arriva la Cina per Alitalia. È solo una partecipazione nel capitale, che per il momento non ha avuto conferme ufficiali, ma nel toto-AZ pieno di balle spaziali che da anni circolano sulla ex compagnia di bandiera, questa sembra essere più di una voce. Che si inserisce in una situazione che già altri autorevoli collaboratori sul Sussidiario hanno definito non propriamente florida, specie per le quote di mercato, per la nostra beneamata Alitalia.
Ecco, questo è il punto, uno dei più focali di tutta la questione: perché se si ha la volontà finalmente di costruire una struttura utile allo sviluppo di un’Italia disperatamente alla ricerca di un’identità economica, si può creare una linea aerea di efficienza giapponese, di tecnologia spaziale, di professionalità siderale. Ma se opera in un mercato somigliante più a un Far West che a un’entità regolata, ogni sforzo è vano.
Proprio il settore commerciale aereo ha fatto da apripista a quello che poi si è esteso a gran parte dell’economia del Bel Paese: l’assenza di regole in grado di poter sviluppare l’economia ha provocato quello che, di fatto, era successo quando invece la situazione era tutta all’opposto.
La cosiddetta “rivoluzione low cost” ha trovato in Italia un terreno fertilissimo, basandosi su un elemento che già aveva provocato disastri nella logica di sistema-Paese che avrebbe dovuto essere seguita. Il campanilismo nostrano ha fatto sì che, come nel ’98 con la questione Alitalia-Klm, l’interesse nazionale fosse letteralmente “sorvolato” (è il caso di dirlo) dalle diatribe provinciali , mandando in visibilio sindaci e autorità provinciali con aeroporti di terzo livello che improvvisamente diventavano internazionali. Insomma, una nazione lunga appena 1.500 km aveva una concentrazione di aerostazioni superiore a quella degli Usa. Ma a che costo? Ovviamente totalmente a carico delle gestioni aeroportuali o comunali/regionali. In pratica, da una parte ci si lamentava del carrozzone statale AZ, ma dall’altra lo Stato alimentava vettori finanziandoli totalmente anche in maniera occulta, attraverso accordi secretati .
È ovvio che ciò costituisce una distonia che, in pratica, abolisce le regole del mercato, in nome del falso concetto che alla fine il costo del biglietto per il passeggero diminuisce. Falso, perché, in primo luogo, accedere alle tariffe “regalate” non è poi ancor oggi così automatico e poi perché alla fine la differenza l’utente la paga in altro modo, con una tassazione più alta. C’è anche da considerare un’altra variabile, che da tempo è finalmente arrivata a occupare le cronache giornalistiche: il mondo del lavoro low cost è stato sinonimo di sfruttamento illegale del lavoro in moltissimi casi e ha generato una precarietà mai conosciuta finora, che poi si è estesa al mondo del lavoro in generale . Le “pezze” messe in questi giorni con la firma di contratti di categoria estesi anche al settore low cost sono una panacea che non risolve affatto i mali di un mercato, anzi li nasconde .
È certo che in molte zone raggiunte dai voli low cost si è registrato un aumento delle presenze turistiche, ma il beneficio per il territorio è stato marginale, anche perché queste ultime nella maggior parte dei casi sono costituite da residenti pure loro “low cost” nella gestione delle loro spese.
Mettere ordine finalmente in questo settore farebbe risparmiare anche allo Stato capitali non indifferenti e provocherebbe una sana competizione tra vettori che ne aumenterebbe l’efficienza. Solo creando un mercato degno di questo nome, con regole precise che – è il caso di dirlo – lo farebbero decollare enormemente, visto il potenziale turistico dell’Italia.
E arrivassero pure i cinesi in Alitalia a questo punto…