“Toh, ma che sorpresa! Paolo Savona sull’euro e sull’Europa ha pure un Piano A?”. Immaginiamo che sia stata, più o meno di tal fatta, la reazione che la notizia di ieri ha suscitato nei suoi detrattori, quelli che per anni, ma soprattutto negli ultimi mesi, da quando cioè è entrato nel governo giallo-verde con l’incarico di titolare del ministero degli Affari europei, gli hanno attribuito – solo, esclusivamente e pervicacemente – la paternità di un unico, ossessivo e pericolosissimo Piano B, incentrato su una netta parola d’ordine: essere pronti ad abbandonare l’euro. Quelli che lo dipingevano come un perfido dinamitardo pronto a far saltare con una sola carica di esplosivo l’intera costruzione europea. E invece…



Invece Savona, come ha informato ieri una nota del suo ministero, ha predisposto, e già inviato alla Commissione Ue, un documento intitolato “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Attenzione, si parla volutamente di politeia, cioè di una “politica per il raggiungimento del bene comune”, che è ben altro e ben di più di quella governance (termine “mutuato dalle discipline di management” che “indica le semplici regole di gestione delle risorse”) alla cui riforma pensa l’Europa franco-tedesca della Merkel e (in misura maggiore) di Macron.



Il documento di Savona si apre con la citazione di un passo di Niccolò Machiavelli tratto da “Il Principe”: “Non esiste cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo e introdurre nuovi ordini, perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che degli ordini vecchi fanno bene, e ha tiepidi defensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbono bene”. L’esergo è molto chiaro: l’Italia – e Savona lo ribadisce poche righe sotto con un italiano meno… machiavellico (gli eurocrati bruxellesi, comunque, stiano sereni, perché hanno ricevuto le 17 pagine del documento con annessa traduzione in inglese) – non si tira indietro sull’euro, anzi si fa avanti per “trovare una forma di collaborazione con i 27 Stati membri per studiare e risolvere le debolezze istituzionali e politiche che si riflettono in un saggio di crescita reale permanentemente inferiore al resto del mondo sviluppato”.



Savona, affrontando tre questioni nodali (l’architettura istituzionale della politica monetaria; l’architettura istituzionale della politica fiscale e la conformazione da questa assunta; le regole della competizione anche in relazione agli aiuti di Stato), mette così, nero su bianco, che “Il Governo italiano riconosce che il mercato comune, di cui l’euro è parte indispensabile, è componente essenziale del suo modello di sviluppo”. Concetto inequivocabile, esplicitato da due aggettivi forti: indispensabile ed essenziale.

Sì, l’Italia crede nell’euro, dice Savona, ma – aggiunge subito – “ritiene che l’assetto istituzionale dell’Unione europea e le politiche seguite non corrispondano pienamente agli scopi concordati nei Trattati”. Bisogna, dunque, cambiare marcia. Come? Più poteri alla Bce, revisione dei Trattati, nuovi accordi per rilanciare la crescita e soprattutto più investimenti, un campo in cui l’Unione europea è carente, nonostante l’ambizioso ma velleitario (dov’è finito?) piano Juncker.

Ma stiamo parlando dello stesso Paolo Savona che, ancora un mese fa, in un incontro pubblico in Costa Smeralda, alla domanda di Bruno Vespa su un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro, rispondeva: “Esiste sempre un piano B, nelle banche come nelle famiglie. Come esiste un piano A. Ma se le cose dovessero andare male non bisogna essere impreparati”? Sì, è proprio lui. Solo che l’establishment tecnocratico-mediatico ha sempre sofferto di un certo strabismo, ostinandosi a guardare il punto sbagliato.

Era già tutto chiaro fin dal 10 luglio 2018, quando Savona intervenne davanti alle commissioni riunite di Camera e Senato, illustrando “la necessità di decisioni che permettano una stretta connessione tra l’architettura istituzionale e le politiche di stabilità e di crescita, se si vuole che il mercato comune e l’euro sopravvivano sul piano del consenso politico”. Anche allora, però, pur parlando di “Bce come prestatore di ultima istanza”, di “rilancio delle politiche della domanda aggregata” e di “una politica europea degli investimenti”, come dice il vecchio adagio, tutti a guardare il dito (il Piano B), mentre il saggio indica la luna, cioè la meta di un’Europa più forte, più coesa, più resiliente ai venti sempre più impetuosi dei sovranismi, dei nazionalismi, della disaffezione e del rancore verso quell’Unione dei tecnocrati e dei ragionieri con il bilancino, intenti a strologare solo di parametri e di zerovirgola.

“Il mio piano B è completare il piano A”. Chissà se il ministro per gli Affari europei conosce Behdad Sami, il primo cestista iraniano che è riuscito a conquistare la ribalta del basket professionistico Usa, seppure non fino ai livelli aurei della Nba. Ma, di certo, la frase di Sami aiuta a capire il disegno, strategico, di Savona.