Normalmente, oggi avreste letto un articolo sul board della Bce tenutosi ieri e sulla conferenza stampa di Mario Draghi. Quasi un appuntamento rituale, spesso e volentieri fin troppo rituale. Ripetitivo. Noioso. Ma tranquillizzante, dopo gli spaventi del 2008 e 2011. E, di fatto, è stato così anche ieri. Nonostante la revisione al ribasso dell’outlook di crescita fino al 2020, dovuto di fatto alle tensioni sui mercati emergenti e alle fibrillazioni legate alla guerra dei dazi, la Bce ha confermato che i tassi resteranno al livello attuale almeno fino a tutta l’estate prossima «e, comunque, a lungo quanto ritenuto necessario» e che dal mese prossimo l’ammontare degli acquisti mensili in seno al Qe calerà, come da programma, a 15 miliardi di euro fino a dicembre, quando la manovra di stimolo monetario cesserà del tutto, in ossequio alle prospettive inflazionistiche raggiunte. 



Insomma, tutto come da copione. Nessuno scossone, come d’altronde da parte della Bank of England (anch’essa orientata a un mantenimento dei tassi attuali), tanto che la notizia di giornata a livello di Banche centrali è stata la decisione di quella turca di alzare il costo del denaro al 24% dal precedente 17,5%, scelta in netta contrapposizione con la linea delineata nella mattinata da Recep Erdogan e che ha portato a un apprezzamento della lira sul dollaro del 5% immediato. Basterà per placare i tormenti della valuta di Istanbul e per bloccare l’emorragia di riserve estere? Non ci vorrà molto a scoprirlo. Io, personalmente, temo di no. Anche perché nemmeno dopo un’ora dalla decisione, la lira aveva già dimezzato i suoi guadagni sul biglietto verde.



Ma al netto di tutto questo, al netto dell’ufficialità, qualcosa potrebbe andare fuori controllo nel nostro Paese. Perché la Bce può fino a un certo punto e non soltanto per la mera questione di controvalore degli acquisti di debito, ovvero di fatto la potenza di offsetting sullo spread rispetto a eventuali e continue vendite di Btp da parte di soggetti esteri. È la variabile politica a pesare e, questa volta, temo non siamo di fronte al solito teatrino, al gioco delle parti, al poliziotto buono e poliziotto cattivo, come nei film di Hollywood. Mi spiego, facendo un esempio che è lontano anni luce da eventuali interventi della Bce e dalla politica di costo del denaro – e, quindi, di finanziamento – in generale. 



Mercoledì è stata giornata dal grande profilo europeo, visto che a Strasburgo si sono votate due mozioni molto importanti o, quantomeno, molto di appeal mediatico: la censura verso l’Ungheria di Orban per presunta violazione dei principi base dell’Unione (ennesima pagliacciata solo formale, visto che ora toccherà votare al riguardo ai governi e, salvo pressioni senza precedenti, la Polonia bloccherà tutto) e la legge sul copyright. Telegiornali e giornali erano pieni di queste due notizie, ovviamente declinate con chiaro taglio di riflesso di politica interna, visto che se sul diritto d’autore Lega e M5S sono concordi nel bocciare il provvedimento, bollandolo come censura orwelliana e bavaglio per la libera informazione dei blog, sulla questione ungherese il Carroccio ha votato contro insieme a Forza Italia, mentre M5S ha votato a favore insieme al Pd. Prove tecniche di ribaltone, in un senso o nell’altro? Ovvero, visto che il redde rationem con la manovra economica sta cominciando a spaventare i due azionisti di governo, soprattutto in vista del voto europeo di maggio 2019, c’è la possibilità che questo esecutivo salti e ne nasca un altro, senza il ritorno alle urne, ipotesi che il presidente Mattarella non vuole nemmeno prendere in esame allo stato attuale? 

Bene, facciamo un passo indietro e torniamo al mio focus europeo di poco fa. Mentre ci si accapigliava sul voto della Plenaria, accedeva che il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, oltre a tenere il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, telefonasse a Giuseppe Conte per lamentarsi dei continui attacchi del ministro Salvini. Jean-Claude Juncker è lussemburghese. Anzi, è stato addirittura primo ministro del Lussemburgo. Ruolo terminato il quale ha dato il via a un fortunata carriera politica europea, nel corso della quale ha condannato il regime fiscale del suo Paese di origine, da sempre in odore di riciclaggio. Bene, cosa si è scoperto dai giornali di ieri? Che i pm di Genova che stanno indagando sui fondi della Lega avrebbero avviato una rogatoria, con tanto in blitz in loco, proprio in Lussemburgo a caccia di conti segreti, dove potrebbe essere transitata parte dei fondi indebitamente utilizzati dalla Lega. Insomma, diciamo che ci sono i presupposti per un’ampia collaborazione da parte delle autorità lussemburghesi, a differenza di quanto spesso accade con Paesi che hanno fatto del segreto bancario e dell’abuso di trust la loro nota distintiva. 

Nelle stesse ore, il presidente Mattarella inviava un segnale politico pesantissimo a Matteo Salvini nel corso del ricordo dell’ex presidente, Oscar Luigi Scalfaro, ricordando che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Politici e ministri inclusi. E che i pm, pur non avendo mandato elettivo, operano in nome di quel “mandante” sovrano che è la Costituzione. Un siluro. E poi in rapida successione, la polemica sul ministro Tria e la sua volontà di non superare l’1,6% di deficit in sede di nota di aggiornamento del Def, giunta a un livello tale di tensione da aver portato i Cinque Stelle a un ultimatum: o nella manovra c’è il reddito di cittadinanza per almeno 10 miliardi o Tria deve dimettersi. 

Dal Mef giungeva un altro boato al riguardo: Tria, infastidito dalle polemiche e con alle spalle la copertura dell’Europa, diceva chiaro e tondo che se era lui il problema, poteva tranquillamente lasciare. Giro di smentite, sia dal ministero dell’Economia che dal ministro Di Maio in persona, ma ecco che un altro esponente grillino di governo, la ministra Barbara Lezzi, gettava nuova benzina sul fuoco: «Senza il reddito di cittadinanza in manovra, è l’intero Governo a rischiare». E come cotè, l’avviso di Pierre Moscovici, il Commissario europeo maggiormente “comprensivo” verso l’Italia e i suoi sforamenti in nome della flessibilità in questi anni, di fatto il nostro difensore d’ufficio dalle critiche dei cosiddetti falchi del Nord: l’Italia è un problema per l’eurozona, serve credibilità nella gestione del bilancio. Di fatto, un assist a Tria nella disputa interna. E un assist di quelli pesanti, roba da smarcamento in area a porta vuota al 89mo minuto di una gara inchiodata sul pareggio. 

Insomma, chi pensa di mettere all’angolo Tria – e, al netto delle smentite, sia Lega che M5S hanno tirato non poco per la giacchetta il ministro finora sulla questione dei parametri europei da rispettare – sappia che dichiara guerra, non più nominalistica ma reale, all’Unione europea. In toto. Ma Commissione in testa, guidata ancora per pochi mesi da uno Juncker con il dente avvelenato e con ogni probabilità a guida tedesca dal prossimo anno, visto che Angela Merkel, mentre qui si vaneggiava di acquisti esteri dei Btp e inesistenti cabine di regia sulla Libia (tanto inesistenti da essere dovuti andare – e di corsa – con il cappello in mano dal generale Haftar non più tardi dell’altro giorno), ha fatto le sue mosse e deciso che, con quello che sta per accadere sui mercati, la guida della Bce appare inutile (tanto si andrà in sincrono e con il pilota automatico verso tassi a zero pressoché perenni, per quanto la Fed millanti superiorità), mentre un esponente di Berlino dovrà presiedere la Commissione, vero centro nevralgico delle decisioni. Budget in testa. 

Ora, a quale gioco stanno giocando i ragazzini travestiti da ministro che avete mandato al potere? Perché qui non siamo più nell’ordine di idee dello scontro ideologico su provvedimenti di bandiera, qui siamo a pochi passi dalla rottura di una corda che è stata tirata per troppo tempo, oltretutto già lisa dagli atteggiamenti da studenti impreparati ma perennemente con la scusa pronta dei governi precedenti a questo. Signori, qui non si scherza più: il fatto che il board della Bce abbia abbassato le stime di crescita non significa nulla nell’immediato, ma è un chiaro segnale politico. Per ora stiamo fermi, ma rendiamo noto al mondo che le dispute in atto sui mercati – crisi valutaria degli emergenti in testa – stanno già colpendo la nostra economia, ora la palla passa nell’altro campo: quello delle elezioni statunitensi di mid-term. Salvo scossoni, infatti, tutti i trader sono pressoché unanimi nel riconoscere che da qui a novembre, a meno che il voto bavarese del 14 ottobre non porti alla fine anticipata della coalizione di governo Cdu-Csu-Spd in Germania, tutto resterà come sospeso per aria, cristallizzato nell’attesa di capire con quale forza Donald Trump si appresterà a guidare il Paese e le sue politiche economiche nella seconda parte di mandato. 

Quella che, paradossalmente, non vivrà sugli allori dei record nominali squadernati finora via Twitter, ma che, anzi, dovrà farli confermare dai fatti in un mondo strutturalmente più debole, visto che la Bce smetterà di sostenere il debito dell’eurozona e anche la Bank of Japan pare intenzionata a cominciare un taper degli acquisti, fosse anche solo per capire l’effetto che fa. Paradossalmente, quindi, saremmo di fronte a una moratoria dalle tensioni di mercato quantomeno di un mese e mezzo: poca roba, ragionando sul medio termine, ma una manna per chi, proprio in quell’arco temporale, doveva mettere mano al Def e poteva farlo con la garanzia di non dover guardare ogni mattina l’apertura dello spread come si guarda l’agenda e si scopre di avere appuntamento con il dentista. E invece, qualcuno vuole rompere. Non solo quel tacito patto di pace sui mercati, ma proprio la stabilità di governo: non a caso, dall’altro giorno è tornata in circolazione l’indiscrezione riguardo un governo Cottarelli di emergenza pronto a tornare in campo, se quello attuale andrà a rotoli e occorrerà governare il caos dello spread in attesa della nascita di una nuova maggioranza o del ritorno alle urne. 

Attenzione, quindi, il momento più drammatico è davanti a noi. Perché andare a stuzzicare il can dei mercati che dorme, potrebbe essere letale. E costringerebbe tutti a soluzioni emergenziali, i cui costi accessori, però, sarebbero devastanti per la nostra economia e la nostra sovranità residua, quella che il governo in carica prometteva non solo di difendere ma di riconquistare in pieno, alla faccia dei diktat di Bruxelles. Attenzione a scherzare con il fuoco, stavolta, perché rischia di non trattarsi della solita scottatura che passa con un po’ di austerity, vera o presunta. Quindi potremmo ritrovarci addebitati anche conti rimasti in sospeso dal passato. E, paradossalmente, anche quelli di altri, visto che di fronte a tanta irresponsabile spocchia politica, la Bce potrebbe tramutarci nel casus belli che le serve per mandare in reverse l’intero programma di ritiro degli stimoli. Attenti al caso Tria, perché ricorda tremendamente la lettera della Bce dell’estate 2011. Con Pierre Moscovici nel ruolo di postino dal volto amico in ossequio al proverbio dell’ambasciatore che non porta pena. Ma Troika, ancorché sotto mentite e più tranquillizzanti spoglie. 

Se invece si tratta dell’ennesimo gioco delle parti degli attori di governo, concordato proprio in sede Ue per rispondere alla Fed con la stessa moneta destabilizzante, allora chapeau e tante scuse. Ma, scusate la sfiducia, ne dubito. 

P.S.: «Le parole del governo italiano degli ultimi mesi hanno fatto danno a famiglie e imprese. Ci atterremo a ciò che hanno detto premier, ministro dell’Economia e ministro degli Esteri. Cioè che l’Italia rispetterà le regole». Mario Draghi, 13 settembre 2018. Ho volutamente estrapolato questa frase del governatore della Bce nel corso della conferenza stampa finale per un motivo: se qualcuno all’interno del governo vuole piantare il proverbiale chiodo nella bara sull’esperienza giallo-verde, ora sa cosa fare. Ma se anche quale sarà il prezzo da pagare. Probabilmente, già alle elezioni europee del prossimo maggio, perché le smargiassate elettorali non esaudite si perdonano, i mutui alle stelle no.