Se andiamo ad analizzare le politiche del credito adottate dal 1990 in poi, sia a livello centrale che regionale, ci rendiamo conto di come anche la politica non ha contribuito efficacemente a una vera modernizzazione del settore. Dapprima c’è stata la stagione delle privatizzazioni che era stata presentata come lo strumento per rendere competitiva la nostra infrastruttura finanziaria superando gestione politiche personalistiche non adeguate al mercato, a cui ha fatto seguito la stagione delle normative europee che liberalizzavano i mercati dando la possibilità di agire in Italia anche alle banche estere. 



Nel 1990 la Banca d’Italia liberalizza l’apertura degli sportelli per stimolare la concorrenza e nel 1992 viene recepita la direttiva europea che autorizza a operare sul mercato italiano anche le banche estere. La fase della liberalizzazione nell’apertura degli sportelli ha certamente un effetto benefico sul settore facendo emergere soggetti più dinamici e rendendo il mercato certamente più favorevole per le imprese, ma a questa stagione ne segue subito un’altra tutta spinta sul tema delle concentrazioni viste come unica possibilità di competere sui mercati. Dopo il mito della privatizzazione si ripropone dai poteri economici e di controllo quello delle economie di scala e quindi della concentrazione come la possibilità per avere finalmente un sistema finanziario moderno in grado di confrontarsi con competitor internazionali. Da qui si innesca un profondo mutamento della presenza bancaria nel Paese con la creazione di grandi gruppi e una progressiva scomparse di banche locali medie e piccole. 



Arriva poi la grande crisi finanziaria iniziata del 2007 che in qualche modo misura il grado di efficienza raggiunto dal sistema dopo le operazioni di privatizzazione e di concentrazione attuate sino ad allora che, salvo alcuni specifici casi, mostra ancora gravi segni di arretratezza. Le grandi operazioni di concentrazione in primo luogo non preservano dal possibile assalto di grandi operatori esteri tanto che periodicamente ci sono rumor di mercato che interessano alcuni grandi player di mercato, frutto di lunghi e consistenti processi di concentrazione di banche nazionali, che potrebbero finire nell’orbita di grandi banche estere. Inoltre, molte operazioni di concentrazione hanno aggravato problematiche relative alla qualità del capitale umano delle banche, avendo messo in primo piano procedure e management di prima fascia come le uniche leve per il raggiungimento di obiettivi di efficienza, trascurando anche i temi dell’innovazione tecnologica che vede il settore mediamente e largamente in ritardo. 



Gli effetti della crisi del 2007 hanno reso necessarie altre operazioni di salvataggio e di ulteriore concentrazione, senza dimenticare che il Governo che ha lasciato il posto all’attuale aveva proseguito con la vecchia politica di spingere sugli accorpamenti attraverso la riforma del Credito Cooperativo e delle Banche Popolari. Una conseguenza di queste politiche di spinta alle concentrazioni bancarie è stata la perdita progressiva di presidio dei mercati locali delle piccole imprese e un razionamento progressivo del credito nei confronti di questo segmento così importante nel nostro tessuto economico. 

La politica che ha fatto vedere un’altra modalità di approccio è stata l’attività del Medio Credito Centrale che ha messo in sicurezza tutto il sistema nel periodo della crisi. Anche le politiche regionali del credito nell’ultimo decennio, a prescindere dal colore delle varie amministrazioni, hanno tutte mantenuto alcune caratteristiche comuni. In genere si è privilegiato concentrare l’intervento sulla salvaguardia e in molti casi sul salvataggio dei sistemi consociativi che fanno perno sulle associazioni di categoria e i loro confidi di riferimento. Pertanto la stragrande maggioranza dei consistenti fondi utilizzati per queste politiche sono state dirottati per la contribuzione pubblica all’accorpamento dei confidi regionali che in larga parte attraversano una grave fase di crisi, dovuta sia ai contesti di mercato che a inefficienze interne generate storicamente dalla rendita derivante dall’appartenenza ai sistemi consociativi regionali. In genere queste contribuzioni pubbliche sono state concesse senza criteri meritocratici e di qualità, contravvenendo alle norme sulla concorrenza. L’ultimo esempio riguarda la Regione Marche che recentemente è stata costretta a modificare il Bando che concedeva ingenti risorse a un Confidi unico regionale in quanto il Tar lo ha annullato perché ritenuto illegittimo. 

È evidente che queste politiche adottate sia a livello centrale che regionale si sono rilevate in buona parte fallimentari non agevolando uno sviluppo equilibrato del settore e dal momento che per esse sono stati utilizzati consistenti risorse pubbliche è necessario un profondo rinnovamento. Non vi è lo spazio per entrare ora nel merito, ma due potrebbero essere i cardini di una riforma. In primo luogo occorrerebbe passare nelle politiche del credito da una centralità date alle banche per le politiche centrali e ai sistemi consociativi locali per le politiche regionali a politiche che mettano al centro imprese e risparmiatori locali contribuendo allo sviluppo di banche e nuovi intermediari finanziari che operano con questi soggetti nella misura della qualità e del valore misurabile che producono a favore di essi. Poi il settore va liberato da forme protezionistiche che garantiscono rendite non giustificate, aprendo ai nuovi soggetti della finanza innovativa, favorendo i sistemi di finanza locale dei circuiti alternativi di credito e di rapporto diretto tra risparmio e impresa locale. 

C’è qualche forza politica che vuole porre una vera e radicale riforma del settore? Nel contesto che viviamo di forte globalizzazione e della crisi del capitalismo finanziario occorre ripartire da territori e da community glocali per salvaguardare e sviluppare le nostre piccole e medie imprese.