La stampa italiana sta finalmente allertando quella parte della politica che vedeva nel programma One Belt One Road Initiative (generalmente conosciuto come La Nuova Via della Seta) una miniera di opportunità sia per il collocamento dei nostri titoli di Stato, sia per l’ingresso di capitale cinese in nostre aziende in difficoltà, sia per le nostre esportazioni, sia per i nostri investimenti in quello che è ancora il Celeste Impero. Nell’ultima settimana, è stato sottolineato che le regole e le prassi per l’affidamento dei lavori per le infrastrutture sono (per essere benevoli ed eleganti) quanto meno opache, che la Cina ha l’obiettivo di esportare non quello di importare (tanto che si fa gioco delle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio, di cui pur fa parte e ha sottoscritto il corpus giuridico), che prendere a prestito da istituzioni finanziare cinesi (per finanziare progetti del programma) comporta il rischio che, prima o poi, il finanziatore si prenda la proprietà. E via discorrendo.
Queste sono trappole relativamente piccole (e con qualche accorgimento superabili) rispetto ai veri trappoloni che presenta la plurimiliardaria (in dollari equivalenti) One Belt One Road Initiative. Lavoro con cinesi (di Singapore e della Malesia, prima, e della Repubblica Popolare, poi) da circa cinquant’anni. Occorre sempre pensare che si considerano la stirpe eletta, tanto che nel XV secolo un loro Imperatore ordinò di chiudere le frontiere e distruggere la flotta (lasciando i mari alla Corea) in quanto temeva che ove si commerciasse con il resto del mondo si dava adito agli stranieri di carpire i segreti tecnologici del Celeste Impero. Si deve tenerlo presente quanto si tratta con la Cina: non c’è programma o progetto che non sia mirato al tornaconto della élite al potere in quella specifica fase storico-politica. Ciò spiega anche perché, nella Repubblica Popolare, si investe in grandi infrastrutture pubbliche (anche cambiando il corso dei fiumi), ma manca nelle pubbliche amministrazioni una vera cultura della progettazione e dell’analisi dei costi e dei benefici finanziari, economici e sociali.
Ciò spiega anche perché la Cina ha promosso l’istituzione della Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib), fondata a Pechino nell’ottobre 2014 (l’Italia vi è membro dall’aprile 2015) che si contrappone alla Banca Mondiale e alla Banca asiatica per lo sviluppo, che, secondo il Governo cinese si trovano sotto il controllo del capitale e delle scelte strategiche dei paesi sviluppati. Scopo della Banca è fornire e sviluppare progetti di infrastrutture nella regione Asia-Pacifico attraverso la promozione dello sviluppo economico-sociale dell’area. La Aiib ha approvato il nuovo “modello per il finanziamento dei progetti” basato – sottolineano i suoi documenti – su “una forte cultura del rischio” – divergendo così dalle altre Banche internazionali di sviluppo.
Torniamo a One Belt One Road Initiative. Per avere un’idea delle problematiche economiche e finanziarie suggerisco di rivolgersi al Social Science Research Network, la più grande biblioteca telematica (820.000 saggi) in materia di economia e finanza. Solo negli ultimi mesi, sono apparsi un centinaio di lavori accademici di spessore molto critici della “iniziativa”, in particolare dei vantaggi per gli altri partecipanti. Interessanti quelli che riguardano il Pakistan il cui “corridoio” è considerato, dai cinesi, come valvola essenziale per non avere unicamente la strada della Siberia per arrivare in Europa, nella consapevolezza che la “via marittima” ha numerose criticità. Saggi di economisti pakistani e non solo sottolineano le profonde disparità di convenienze economiche: il beneficiario sarebbe quasi interamente la Cina e pochissimo il Pakistan. Il ministero per lo Sviluppo economico dovrebbe promuovere studi e ricerche analoghe per quanto riguarda le convenienze dell’Italia a entrare nel programma: ciò, quantomeno, rafforzerebbe la nostra posizione negoziale rispetto a Pechino.
C’è soprattutto il crescere delle tensioni politiche in Cina. Apparentemente, c’è calma assoluta. Xi Jinping e il suo gruppo non hanno un’opposizione ideologica, sono riusciti a cambiare le Costituzione eliminando i termini di mandato. Con la campagna anti-corruzione hanno messo in galera (o peggio) i dissidenti. Hanno costituito una classe di “aristocratici rossi” – così li chiama, in un saggio recente, Yi-Zeng Lian, un esule da Hong Kong che insegna alla Yamanashi Gakuin University in Giappone ed è editorialista del New York Times. È un gruppo coeso anche per ragioni familiari: sono i discendenti che coloro che assunsero il potere, con Mao, nel 1949. Si sono dispersi durante la Rivoluzione Culturale e riuniti all’epoca delle “quattro liberalizzazioni” di Deng Xiaoping. Chi vuole scalzarli? Yi-Zeng Lian li chiama i “nuovi plebei”, discendenti anche loro di protagonisti della lunga marcia, che vennero posti ai margini nel 1949, ma successivamente “ripescati” quando Mao e Den volevano liberarsi della “vecchia guardia” e successivamente di nuovo accantonati, o rottamati, da Xi. Sono “La Nuova Classe” per ricordare il saggio di Milovan Dijlas sulla Yugoslavia di Tito. Sono assetati di potere e corrotti tanto quanto gli “aristocratici rossi”, ma distinguono, e vogliono distinguersi da questi ultimi.
Sono più aperti al mercato poiché il loro momento migliore fu all’epoca di Deng. E ovviamente non favoriscono il programma One Belt One Road Initiative che è il fiore all’occhiello degli “aristocratici rossi”. Le tensioni, di cui poco si parla in Italia, si stanno acuendo a ragione della crisi finanziaria in atto in Cina, di cui si è scritto su questa testata e che è l’argomento centrale di un recente rapporto Ocse. In aggiunta, dopo oltre un decennio, la Cina ricomincia a conoscere l’inflazione: le statistiche ufficiali parlano di aumenti dei prezzi al consumo al tasso del 2,5% l’anno, ma Goldman Sachs afferma che il tasso è molto più alto e in accelerazione. Altro motivo di crescente di scontento.
In Cina i cambiamenti politici sono o molto lenti o molto repentini. O un misto dei due. Il sinologo giapponese Naiti Konan sottolinea che nella storia cinese le dinastie hanno lunga durata, ma i cambiamenti di Imperatore e le congiure sono frequenti. Nella “dinastia comunista”, Xi è giunto al potere come candidato di compromesso nel gruppo degli “aristocratici rossi”, un gruppo numericamente modesto (pare attorno alle 50.000 persone e le loro famiglie). Poco si sa dei suoi oppositori, anche tra gli “aristocratici rossi”. Una ragione in più per muoversi con cautela sulla One Belt One Road Initiative.