“Non importa se ti muovi piano, l’importante è che non ti fermi”: nel suo viaggio in Cina il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, deve aver riletto e meditato l’aforisma di Confucio, perché continua come se nulla fosse, anche se ogni giorno c’è qualcuno che vuole indurlo a spingere il piede sull’acceleratore.
Ultimo Giancarlo Giorgetti, che evoca la possibilità di sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil sia pure “per mettere l’Italia in sicurezza”. L’idea è sempre la stessa: togliere dal calcolo del deficit gli investimenti infrastrutturali, ci aveva pensato già Mario Monti parecchi anni fa e aveva tentato di farlo digerire a Bruxelles, ma senza successo.
Tria torna domani a Roma e forse farebbe bene a convocare subito una riunione al vertice per mettere ordine nella gran cacofonia che la sua assenza ha reso ancora più confusa. Non una stanza di compensazione, che già di per sé implica divergenze non sanabili altrimenti, ma piuttosto una vera cabina di regia. Il regista, in realtà, dovrebbe essere il presidente del Consiglio, ma Giuseppe Conte sembra aver rinunciato. Scoraggiato, dice che lui “resta un solo giro”, non sapendo quanto durerà. Da avvocato del popolo, come aveva annunciato nel suo discorso d’investitura, sembra ridotto a fare l’avvocato matrimonialista per una coppia divisa da incompatibilità di carattere e di obiettivi.
Tocca, dunque, a Tria esercitare il ruolo di mediare e tranquillizzare. Ma per farlo, deve scoprire fino in fondo le carte. Nonostante le reazioni isteriche che si sono levate dal mondo giallo-verde, l’agenzia Fitch ha preso tempo confermando il rating (BBB che certo non è tranquillizzante) con un outlook negativo dovuto, come ha spiegato nel comunicato, alle divergenze in seno al governo. In mancanza di un quadro chiaro e di cifre-obiettivo certe, non si può che sospendere il giudizio e incrociare le dita. Anche Standard & Poor’s ha deciso di aspettare, come del resto Pierre Moscovici. Tria ha apprezzato i toni concilianti del commissario europeo il quale, dal canto suo, ha espresso fiducia nella saggezza del ministro italiano. Ma anche la pazienza confuciana ha un limite perché, come diceva il maestro cinese “non correggere i nostri errori è come commetterne altri”.
Il primo errore da correggere riguarda il calcolo del disavanzo. Allo stato attuale siamo di fronte a un balletto di tre percentuali: 0,8% è il deficit per l’anno prossimo scritto nel Documento di economia e finanza varato da Pier Carlo Padoan e Paolo Gentiloni; 1,8%, dunque un punto in più, è quel che vorrebbero M5S e Lega; 1,5% è quel che vorrebbe Tria. Sembra una differenza di pochi decimali, dunque non così ampia da provocare una frattura politica. Tuttavia la vera distanza riguarda i tre marchi di fabbrica dell’alleanza giallo-verde: la flat tax, il reddito di cittadinanza e gli investimenti pubblici. Perché, a meno che il ministero dell’Economia non lo chiarisca, non basta nemmeno un disavanzo dell’1,8% per finanziare tutti e tre questi obiettivi nel 2019.
Superare di un punto il traguardo segnato da Padoan, consente di avere a disposizione circa 16 miliardi, ma 12,4 servono a sventare l’aumento dell’Iva e il resto a coprire le spese indifferibili. Dunque, bisogna trovare ricorse aggiuntive per la flat tax e il reddito di cittadinanza, mentre i 50 miliardi di investimenti pubblici proposti da Paolo Savona sono destinati a essere rinviati, a meno che Giorgetti non estragga un coniglio dal cappello.
Proprio l’impegno a coprire con nuove entrate e minori uscite sia la riforma fiscale sia l’erogazione assistenziale a chi non lavora, è il punto di incontro tra Tria e Moscovici. Come e dove trovarle, è tutto da stabilire.
Un’ipotesi è il condono tributario (alias pace fiscale), tuttavia dovrebbe essere abbastanza esteso da fruttare un bel gettito e non deve risultare come misura una tantum. Il grosso dovrebbe venire ancora una volta dal taglio delle spese. E qui casca l’asino. L’esperienza infelice di tutte le spending review ci dice che nessun governo finora è riuscito a tagliare in modo consistente la spesa pubblica corrente. Unica eccezione viene dai tagli lineari di Giulio Tremonti che ridussero le uscite dello Stato per circa due punti di Pil, ma l’allora ministro dell’Economia la pagò cara. Già si sentono le grida di dolore delle Regioni e dei Comuni, senza contare le eccezioni concesse in pochi mesi da questo governo, come per esempio nel caso di Roma, o l’impatto delle assunzioni promesse nella pubblica amministrazione di ogni ordine e grado.
“Il deficit significa chiedere prestiti e chiedere prestiti è anche una cosa legittima, ma bisogna trovare chi il prestito è disposto a darlo e a quali condizioni”, ha spiegato Tria dalla Cina. Credito viene da credere. Concedere credito all’Italia comprando i suoi titoli di Stato a prezzi di mercato, o finanziando le sue attività, comporta di credere nella capacità del governo di fissare obiettivi realistici e realizzarli. Forse è proprio questo che l’imperturbabile ministro dovrebbe fare: convincere non solo l’Europa o i mitici mercati, bensì gli imprenditori che manifestano tutto il loro scontento, i lavoratori che hanno bisogno di migliorare i loro salari, i giovani in cerca di lavoro vero e non assistito, che il governo è capace di governare.