Passano i giorni, aumentano le prove ma ancora nulla: la narrativa ufficiale è più forte del buon senso. Si continua, strenuamente a credere alla pagliacciata della guerra commerciale fra Usa e Cina, quasi fino a oggi i media e la politica non ci avessero fornito sufficienti prove del regime di cortine fumogene di cui stanno abusando da almeno due anni per scopi meramente politici: crisi con la Corea del Nord, Russiagate, Siria, Venezuela. Basta voltarsi e una distrazione di massa salta fuori, come funghi nel sottobosco dopo un temporale. Eppure, sembra quasi che la gente non voglia uscire dal torpore in cui si è adagiata. Mollemente. Addirittura, crede che in Italia ci sia davvero un “Governo del cambiamento”!
Prendiamo l’ultimo esempio in ordine di tempo, ovvero i nuovi dazi contro la Cina emanati da Donald Trump martedì per 200 miliardi di dollari e contro i quali Pechino ha già annunciato una rappresaglia per un controvalore di 60 miliardi di dollari a partire dal 24 settembre. Nei giorni scorsi vi ho mostrato plasticamente come la nuova offensiva americana sia una farsa, poiché la gran parte dei nuovi prodotti cinesi colpiti (non a caso con una tariffa del 10% e non del 25%, come accaduto nella prima tranche) rappresentano beni di larghissimo consumo per i cittadini americani e difficilmente le grandi catene potranno trovare fornitori alternativi al Dragone, a parità di condizioni: quindi, state certi che saranno dazi di corto respiro, per il semplice fatto che altrimenti quei prodotti saliranno di prezzo e a essere colpito sarà il potere d’acquisto dei cittadini Usa di fascia medio bassa, la ex middle-class già ridotta a lumpenproletariat dalla crisi del 2008. Il tutto, a meno di due mesi dalle elezioni di mid-term che, stando a tutti i sondaggi, vedono i Repubblicani mantenere il controllo del Senato ma perdere quello della Camera dei Rappresentanti. Credeteci pure, se volete. E salutatemi Babbo Natale, già che si siete.
Perché poi Pechino reagisce per un controvalore di tariffe su prodotti Usa così basso? Bene, questi tre grafici cominciano a mettere in prospettiva la situazione. Come vedete, Pechino è costretta a limitare il controvalore dei suoi dazi sull’import Usa per il semplice fatto che importa molto meno degli Stati Uniti nel commercio bilaterale. In compenso, gli altri due grafici sono esplicativi della logica da gatto che gioca col topo che è in atto: non solo da dati del Tic statunitense pubblicati l’altro giorno, si scopre che a luglio la Cina ha scaricato Treasuries per un controvalore ai massimi da sette mesi, portando la detenzione totale proprio al livello dello scorso gennaio, ma, stranamente, non solo le vendite di luglio hanno coinciso con l’inizio del cosiddetto “armamento” dello yuan, ovvero la svalutazione interna della moneta cinese proprio come risposta ai dazi Usa, ma il terzo grafico ci mostra come l’impennata del rendimento del Treasury conosciuta martedì – tornando sopra la quota psicologica del 3% tondo – è casualmente coincisa con l’annuncio ufficiale dei nuovi dazi. Insomma, importando meno, si inviano segnali in altro modo. Ma, come vedete, nulla che faccia veramente male, né all’uno, nell’altro contendente. Almeno per ora.
Chi invece si sta facendo male? E parecchio, calcolando che sta per terminare l’eta dell’oro monetaria, ovvero il Qe? Il vero bersaglio della disputa fra i due giganti, come vi dico da sempre, è l’Ue. E questi altri tre grafici ce lo mostrano in maniera talmente plastica che sfido chiunque a negare la correlazione: il primo, quello doppio, parla chiaro e fa riferimento a un’altra dinamica in atto in questo periodo, stranamente esplosa in contemporanea con la disputa commerciale. Anzi, esacerbata da quest’ultima. Ovvero, la crisi valutaria/debitoria dei mercati emergenti, strettamente correlata all’aumento dei tassi della Fed che ha reso l’indebitamento estero in biglietti verdi di Paesi come la Turchia, il Brasile e l’Argentina in prospettiva sempre meno sostenibile, anche al netto di enormi scadenze obbligazionarie corporate da qui a fine 2019. Cosa ci mostra il grafico? Ciò che vi dico dal primo giorno: se, come nel 2013, partirà un tantrum in grande stile sui mercati emergenti a causa delle crisi valutarie, il primo contagiato diretto stavolta non sarà l’Asia, ma proprio l’Unione europea e questo a causa del peso che l’export ha percentualmente sul Pil europeo, molto più alto di quello degli Usa.
Ora, guardate gli altri due grafici, i quali ci mostrano il trend degli ordinativi industriali esteri tedeschi (-12% solo nei primi sette mesi di quest’anno) e quello della produzione industriale italiana, il cui ultimo dato negativo – riferito al mese di luglio – è stato pubblicato dall’Istat proprio martedì. Sarà un caso questo combinato congiunto fra guerra commerciale che, a causa della prima tranche di dazi, ha fatto salire il prezzo delle materie prime importate (con l’aggravante delle sanzioni Usa sull’alluminio della russa Rusal che entreranno in vigore a novembre, stranamente in contemporanea anche con il blocco totale sull’export petrolifero iraniano) e crisi dei mercati emergenti che spedisce scossoni sistemici all’export europeo? Io non credo.
E, attenzione, perché fino a fine anno c’è la Bce in servizio permanente che può intervenire, magari riattivando a forza quattro gli acquisti di bond corporate per rafforzare almeno i cuscinetti di capitale delle aziende i cui comparti saranno più colpiti in autunno, ma c’è poco da fare: l’Europa è il vaso di coccio tra vasi di ferro. Oltretutto, un vaso che presenta già pesanti crepe dovute alle cadute volontarie, ovvero alla guerra intestina fra Stati che sta destabilizzando ulteriormente l’Unione.
E sapete, tanto per capire quali giochi siano in atto, chi è stato a comprare Treasuries a luglio, mentre la Cina vendeva per ricordare agli Usa che si sta scherzando e quindi di non esagerare? La Turchia, la quale a giugno aveva venduto per mostrare i denti nella disputa sul pastore anglicano ai domiciliari ad Ankara e che, dopo settimane di tracollo della lira e delle riserve estere per cercare di salvarla, sembra essere addivenuta a più miti consigli con Washington. E il Giappone, stranamente dopo che Donald Trump aveva indicato Tokyo come prossimo bersaglio dei dazi per riequilibrare il deficit commerciale bilaterale E la Francia, stranamente in modalità di riavvicinamento con la Casa Bianca da quando in Libia è tornato il caos. Vi paiono tutte coincidenze, tutte combinazioni? Vale davvero la pena fare la guerra alla Germania per il suo surplus, prestando il fianco a chi ha come principale obiettivo disgregare e distruggere, in modo da potersi spartire le macerie e la conseguente ricostruzione con Pechino (vedasi l’attivismo cinese in Grecia, ad esempio), avendo come asso nella manica la più che probabile vittoria delle sue “quinte colonne”, vedi i leader sovranisti alla Salvini o alla Orban, alle Europee di maggio?
Non è difficile, basta guadare cosa accade sotto il pelo dell’acqua e non soltanto al di sopra. Basta saper leggere un po’ fra le righe e unire i puntini, come si fa con la Settimana enigmistica. Qualcuno ha molto da guadagnare da un tracollo politico e conseguentemente economico del primo mercato al mondo, ovvero quello europeo. E quel qualcuno ha un nome e un cognome, ancorché sembri più comodo e di moda millantare convergenze parallele e strane geometrie variabili a livello geopolitico. Stiamo scherzando con il fuoco e purtroppo non si tratta solo di mancanza di prospettiva, perché ciò che noi temiamo vada a colpire Usa e Cina nel proseguo dell’anno, in realtà sta già colpendo le economie europee e, Dio non volesse, se la crisi degli emergenti dovesse precipitare per qualsiasi motivo (e ce ne sono a bizzeffe, come di detonatori a disposizione), il rischio è quello di un’entrata anticipata in recessione dell’economia tedesca. Ciò che l’America vuole. E per un motivo: perché sa che l’intero Sud Europa – in preda a un infantile e generalizzato delirio da schadenfreude, alimentato dai populismi di varia latitudine, dall’Italia al Gruppo di Visegrad fino alla Svezia – non farà fronte comune, ma, anzi, gioirà delle disgrazie di Berlino, non fosse altro per la percezione epidermica di una miope “vendetta” per la Grecia.
A quel punto, poi, comprarsi alleanze sarà un gioco da ragazzi. E noi ci scanneremo per chi sarà il traditore più lesto nel consegnare gli ex alleati al nuovo padrone, quantomeno per diventare servo per ultimo. Sarà la gara a chi è il miglior kapò del campo. O, almeno, a essere il prediletto. Che brutta fine, povera Europa. E, cosa ancor peggiore, senza nemmeno combattere per l’onore. E la propria sovrana indipendenza, in tempi in cui si abusa di questo termine. Quasi sempre a sproposito.