Quali sviluppi ci saranno dalla presunta guerra commerciale tra Usa Cina? Come vi dicevo nell’articolo di mercoledì, è il disequilibrio nei dati dell’import fra Usa e Cina che potrebbe fare la differenza, con Pechino che infatti ha risposto ai dazi su 200 miliardi di dollari di propri beni imposti dalla Casa Bianca con “soli” 60 miliardi: il Dragone esporta troppo e importa poco, la bilancia della guerra tenderà sempre a essere in disequilibrio. Il vero tallone d’Achille per Donald Trump e i suoi piani di grandeur commerciali e manifatturiera ritrovata. Ecco quindi che, stando all’ultimo report di Hellenic Shipping News, la Cina potrebbe utilizzare armi non convenzionali, se veramente volesse porre pressione su Washington, ad esempio colpire i prodotti ad altissimo consumo e di grande impatto come quelli di maggior diffusione della Apple oppure colpire direttamente con sanzioni gli investimenti statunitensi in Cina. 



Non a caso, non più tardi di giovedì scorso, Jack Ma, leader di Alibaba, ha sparato il suo siluro, rimangiandosi la promessa della creazione di un milione di posti di lavoro proprio negli Stati Uniti. Attenzione, però a leggere bene, questa notizia: Alibaba aveva infatti “promesso” di sviluppare il suo business in America, non firmato un accordo. Siamo, come i mercati e le loro reazioni farsesche e iper-attive ci mostrano da tempo, nel campo della mera percezione e dell’aspettativa basata su cosa, però? Nel caso di specie, in un’immensa pantomima, basti vedere quanto ci ha messo Donald Trump a cambiare idea rispetto al profilo da dare alla Cina nel contesto globale: prima amico con cui cenare amorevolmente nella tenuta in Florida del Presidente (interrompendo in maniera poco rituale il desinare per dare il via libera all’attacco missilistico in Siria, oltretutto) e poi, di punto in bianco, tramutarlo formalmente nel Satana dell’economia, scagliandogli contro sanzioni che sono, almeno nel breve-medio termine, una iattura proprio per siderurgia e manifattura made in Usa, stante i costi di produzione più alti, ad esempio dei metalli non più importati a prezzi stracciati dalla sovra-produzione cinese. 



A detta degli esperti, qualsiasi forma prenderà il prossimo round di questa “guerra”, l’impatto si riverbererà immediatamente sull’industria delle spedizioni a livello globale, visto che il timore per uno shock sulla crescita a livello mondiale potrebbe portare a un ri-prezzamento di molti assets, alcuni dei quali strategici. E in grado di auto-alimentare crisi, vedi il rame. O l’alluminio. Ora, guardate questo grafico, perché è quello maggiormente preoccupante. È stato preparato dalla Cpb Netherlands Bureau for Economic Policy Analysis e mostra come i volumi del commercio a tre mesi non siano solo in calo, al pari delle tariffe per i noli, ma addirittura già oggi in territorio negativo, sintomo chiaro di guai economici di ampio spettro. Non fosse altro perché quella discesa sotto lo zero si è sostanziata molto prima dell’intervallo normale di completamento di un ciclo economico, sintomo che qualcosa si è rotto nel meccanismo di trasmissione e dell’offerta del commercio globale. Già oggi, in chiaro atteggiamento di anticipo. 



 

Per Bloomberg, «il calo colpisce particolarmente perché le materie prime, uno dei sotto-settori più ampi e volatili dei beni commerciati globalmente, aveva finora performato bene, visto che gli indici Cpb sia per le commodities da carburante che per le altre avevano raggiunto i livelli massimi dal 2014 in maggio». E c’è di più, perché sempre Bloomberg sottolinea come «la debolezza nel comparto non arrivi e non promani dai materiali, ma dai beni lavorati in produzione, sintomo che la catena globale di fornitura non è più in grado di operare normalmente». Insomma, se non è grippata, sta per farlo. E questo sì, a causa di quanto scatenato da Washington e amplificato da Pechino. E non solo con ricadute dirette sull’eurozona tramite la cinghia di trasmissione dei mercati emergenti ma a livello globale, ovunque: dal Brasile alle fabbriche del Mid-West, dai porti cinesi alle miniere australiane. E, paradossalmente, la conferma arriva proprio dagli Usa che hanno scatenato questa disputa. Anzi, direttamente dalla Fed attraverso il suo Beige Book di luglio, nel quale si diceva a chiare lettere – ancorché media ed esperti si siano ben guardati dal sottolinearlo – che «le manifatture statunitensi potrebbero subire un rallentamento a causa di prezzi più alti e interruzioni nella catena di fornitura attribuibili alle nuova politiche commerciali, oltre a prezzi più alti nell’input e margini che si assottigliano».

Insomma, ci sono sempre più forti e chiari segnali che la guerra commerciale, lungi dal fare direttamente del male ai due “combattenti” nel breve, se dovesse proseguire e acuirsi nel quarto trimestre di quest’anno e oltre, potrebbe davvero imporre notevoli conseguenze sul mercato internazionale delle spedizioni, di fatto un proxy anticipatorio di un shock ribassista della crescita economica a livello globale. Tradotto, recessione. Un qualcosa che, se soltanto divenisse un’ipotesi percepita come pressoché certa, ancorché posizionabile a livello di prospettive nella seconda metà del 2019, vedrebbe i mercati entrare in modalità immediata di re-price rispetto praticamente a tutti gli assets, a partire da quelli maggiormente legati alla produzione e giù a catena fino alla controparte della finanza (futures, Etf e persino Cds dei Paesi maggiormente coinvolti). A quel punto, se non gestita, la situazione risponderebbe a un unico nome e un’unica condizione: panico. Per placare il quale, onde evitare gli errori e i ritardi del 2008-2009, le Banche centrali rientrerebbero in azione. Anche solo parzialmente. Anche solo a tempo e con ammontare non monstre ma in maniera coordinata: ciò che serve, almeno in parte, per sgonfiare le bolle più grosse senza che esplodano. Ma per farlo, per ottenere questo intervento salvifico, occorre appunto la distruzione schumpeteriana, ancorché controllata come la demolizione di un palazzo: fragorosa e impressionante, certo. Ma senza vittime, quantomeno. 

La partita reale in corso è questa, la posta altissima. Paradossalmente, più alta che nel 2008. E nel 2011. Donald Trump è il dinamitardo e sarà il capro espiatorio, come vi dico dal giorno seguente alla sua fragorosa e sconvolgente elezione alla Casa Bianca. Tutto il resto, è un foglio bianco da scrivere. Ma prima, per fare quella carta, occorre cellulosa. Quindi, molti alberi verranno abbattuti nella foresta dell’economia e della finanza globale. È il prezzo da pagare. Tutto sta a capire chi dovrà pagare la percentuale di conto più alta: a occhio e croce, in Europa in pochi hanno capito a cosa stiamo andando incontro. E questo rende il tutto tremendamente pericoloso. 

(2- fine)