“Non ci impiccheremo agli zero virgola”, dice Matteo Salvini, eppure si litigherà fino all’ultimo proprio sulle virgole e sui decimali. Il disavanzo pubblico sarà l’1,6% del prodotto lordo, come vuole Giovanni Tria, attorno al 2% come preferisce Salvini o addirittura del 2,6% come ha rilanciato dalla Cina Luigi Di Maio? Stando a Giancarlo Giorgetti, plenipotenziario della Lega, saranno rispettati i vincoli europei, quindi non verrà sfondata la barriera del 2%. Il ministro dell’Economia sa che dovrà mediare, ma gioca al ribasso proprio mentre i due partiti al governo tirano in alto. E cominciano le scommesse: si fermerà all’1,8%; no all’1,9%, in ogni caso sarà più del doppio rispetto a quello che aveva scritto Pier Carlo Padoan nel Documento di economia e finanza presentato a primavera, prima delle elezioni.
Fino a giovedì prossimo non si saprà nulla di certo; quel che si può capire fin da oggi è che la nota di aggiornamento del Def conterrà parecchie cifre nuove e, per lo più, non positive. La prima brutta sorpresa riguarda la crescita. L’Istat ha rivisto al rialzo il tasso di crescita del Pil 2017, portandolo dall’1,5% stimato in aprile all’1,6%. Risulta, quindi, in lieve calo rispetto alle stime precedenti anche il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo che passa dal 131,4% del 2016 al 131,2%. L’Ocse ha aggiustato al ribasso le previsioni per quest’anno: +1,2% invece del +1,4% stimato a maggio e poco più di un punto nel 2019. L’andamento del deficit in rapporto al Pil nel 2017 è stato peggiore del previsto nonostante il denominatore sia cresciuto di più: 2,4% contro il 2,3% della stima di aprile e il 2,5% del 2016. Il deficit tendenziale previsto nel Def di Padoan per quest’anno è pari allo 0,8% nel 2019, ma il ministro Tria ha indicato che per il 2019 è già all’1,2%, mentre il debito quest’anno migliorerà solo dello 0,1%. E l’aggiornamento del Def non potrà che accettare il ribasso della crescita: quest’anno +1,2% e l’anno prossimo da +1,4% a +1%.
Da questa grandinata di percentuali si capiscono due cose: la prima è che l’economia italiana è in stagnazione e rischia quella che gli economisti chiamano una recessione della crescita, ciò riduce le risorse a disposizione per la politica economica; la seconda è che il mitico 2% è meno di quel che hanno fatto i governi precedenti e ben più di quello che si era impegnato a fare Padoan. Su questo sentiero si muove Tria, una sorta di via di mezzo alla orientale per un economista al quale piace la Cina, Terra di mezzo per antonomasia, fin da quando era giovane.
Basterà a tenere calmi i mercati e rassicurare le agenzie di rating? Il ministro dell’Economia dice che il problema non è Bruxelles, sono i mercati che determinano le aspettative, le quali in economia sono fondamentali. Così, ha cominciato un gioco di messaggi rassicuranti per bilanciare quelli ansiogeni dei due capi partito nonché vicepresidenti del Consiglio. Finora gli è riuscito abbastanza bene, anche se in realtà ha solo limitato i danni. Lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi oggi è a quota 220 punti base, nel secondo trimestre dell’anno è cresciuto di 110 punti fino a toccare quota 240 ed è costato caro. Le principali nove banche italiane hanno perso due terzi degli utili, cioè circa 4 miliardi di euro. L’indice della borsa di Milano viaggiava a quota 24 mila a maggio, tra 20 e 21 mila a settembre. A ciò si aggiungono i dati sulla fuga di capitali.
Tra maggio e giugno sono usciti 78 miliardi di euro, secondo i dati della bilancia dei pagamenti, ben 58 a causa della vendita di titoli pubblici, 10 miliardi per la dismissione di obbligazioni bancarie. Per trovare una fuga altrettanto concentrata bisogna andare a subito dopo la vittoria del No al referendum costituzionale: ben 33 miliardi nel dicembre 2016. Durante la crisi del debito, tra 2011 e 2012, uscirono 160 miliardi, ma in due anni. Chiamatela se volete speculazione, in pratica sono quattrini che mancano per lo sviluppo del Paese. Tria lo sa bene e per questo ha seguito l’esempio di Mario Draghi lanciando ai mercati parole che pesano come pietre. Ma ormai il tempo delle parole volge al termine, comincia il tempo delle decisioni.
Vedremo come finirà la battaglia del 2%, in ogni caso lo scontro sulla politica fiscale continuerà fino al 15 del prossimo mese, quando dovrà essere presentata la Legge di bilancio. Allo stato attuale sembra che Salvini abbia accantonato la flat tax, anche quella dual o quant’altro, mentre spinge l’acceleratore sulle pensioni: quota 100 che, dopo numerose versioni riviste e corrette, significa 62 anni d’anzianità e 38 di contributi. Costo stimato dalla Lega tra i 6 e gli 8 miliardi di euro. Ci dovrebbe essere poi un miglioramento fiscale per le partite Iva e la pace fiscale o condono che dir si voglia. Qui i conti della spesa ballano, perché dipendono molto dall’estensione del beneficio: riguarderà solo il piccolo contenzioso con il fisco, arriverà fino a un milione di euro, si estenderà alla vastissima platea degli evasori?
Di Maio, invece, sembra non aver rinunciato né al reddito, né alla pensione di cittadinanza (780 euro mensili) a partire dal prossimo anno. Costo stimato 15 miliardi, 7 dei quali da recuperare in deficit, gli altri assorbendo il reddito d’inclusione (3 miliardi) e con non meglio precisate razionalizzazioni della spesa. Quei 7 miliardi in più non sono affatto scritti, allo stato attuale, nei conti di Tria. Il ministro sostiene che è sua intenzione rispettare il contratto di governo, ma a tempo e a luogo. Si può cominciare finanziando i Centri per l’impiego, conditio sine qua non per la nuova indennità per i disoccupati; quanto alle pensioni, è possibile partire da chi ha più di 70 anni. Al M5S non basta, ma qui si scontra con un muro che non è tecnico, ma politico e si chiama Lega.
Salvini ha enfatizzato molto l’appeasement con Silvio Berlusconi, l’accordo per le prossime regionali e il via libera per Foa alla presidenza della Rai. Il “capitano” leghista lo sbandiera come suo punto di forza che può aprire la strada a uno show-down con i grillini anche a costo di far cadere il Governo. C’è già chi immagina uno scenario di questo genere: via libera alla finanziaria tranquilla preparata da Tria e resa dei conti dopo Natale per arrivare in primavera a un voto politico o insieme alle elezioni locali o dopo le europee. Ecco perché Salvini ha mollato la flat tax e punta sul provvedimenti anti-immigrati, coltivando cioè il terreno dove è più forte e dando ascolto alla pressione della sua base del nord-est che vuole meno tasse, ma niente avventure in economia.
Rumori fuori scena, ipotesi, ma è di questo che si nutrono le aspettative dei mercati e le agenzie di rating come Moody’s e Standard & Poor’s che aspettano la Legge di bilancio prima di compilare le loro pagelle.