Ieri pomeriggio è finalmente “uscito” il decreto del Governo per affrontare l’emergenza di Genova dopo il crollo del ponte Morandi. L’esecutivo ha messo nero su bianco l’intenzione di escludere il concessionario autostradale dalla gara per la ricostruzione del ponte obbligandolo però a pagare. La ragione è, secondo il Governo, “evitare un indebito vantaggio competitivo nel sistema delle concessioni autostradali”. Non sappiamo quali siano le intenzioni di Autostrade per l’Italia, se accetterà questa impostazione e se metterà in essere iniziative per impedirlo. La polemica sulle attività di manutenzioni e sul limite agli investimenti fatti dalle concessionarie “in house” è, però, datata e dall’altra parte delle barricate ci sono le società di costruzioni che, comprensibilmente, si lamentano da anni di essere escluse a priori da una buona fetta di lavori.
Nelle prossime settimane scopriremo se l’intervento del Governo è adeguato per rispondere all’urgenza di ripristinare la viabilità nel minore tempo possibile compatibilmente con i tempi di costruzione e, in una fase iniziale, con le indagini. È chiaro però che il decreto non affronta il cuore del problema che è il destino della principale concessionaria autostradale italiana. Se solo la metà di quello che c’è scritto nel rapporto prodotto dal ministero fosse vero e cioè che il sistema attuale non garantisce la sicurezza dei ponti e che il concessionario risulta “incapace di gestire le problematiche connesse all’invecchiamento delle opere affidategli dalle Convenzione”, ci si troverebbe davanti a una situazione che richiede una decisione “politica”.
È sempre più chiaro che il concedente, lo Stato italiano, ha fatto nel corso degli ultimi due decenni un pessimo lavoro. Ha permesso che un monopolio pubblico, in cui la capacità imprenditoriale non incide né sul prezzo né sui volumi, generasse profitti fuori scala al punto che il concessionario si trovava nelle condizioni di comprare quote in aeroporti francesi, italiani, nel tunnel della Manica, e di lanciare un’offerta a prezzi davvero “pieni” sul principale concessionario spagnolo e francese; si dia un’occhiata al grafico di Abertis già esploso, prima dell’offerta, complice tassi bassissimi. Qualcosa è andato storto. In altri casi si sono prodotte tariffe folli che nei fatti rendono un monopolio, costruito decenni fa, un bene di lusso. Ancora peggio. Oggi con un Paese in crisi abbiamo tratte autostradali con costi proibitivi persino per il ceto medio e altre tratte che producono profitti “monstre” su una rete già ampiamente ammortizzata.
Nelle ultime settimane abbiamo scoperto che in questo sistema, quello che garantisce profitti record, e che ha permesso ai concessionari di un Paese moribondo di fare offerte a prezzi pieni dall’America latina all’India forse non assicura nemmeno la certezza di una manutenzione ordinaria e straordinaria della rete affidata in concessione. Quindi un Paese in crisi, costretto a tour de force estenuanti sulla finanziaria, ha dei concessionari che gestiscono un monopolio ricchissimi e che fuori dall’Italia non trovano competizione semplicemente perché nessun altro Stato è stato così “incapace” e allo stesso tempo non può nemmeno essere sicuro della buona manutenzione della rete. In questa situazione “invocare i tempi della giustizia”, dieci anni, sembra un modo per non affrontare il problema.
Se mantenere lo status quo significa impedire l’uso dell’autostrada a una buona fetta della popolazione, che intasa la viabilità ordinaria per non pagare un pedaggio che sostanzialmente non si può più permettere e implica che, quando si concede questo lusso, deve anche fare gli scongiuri, allora si deve ripensare profondamente il sistema. Certo con compensi equi al netto dei danni ma senza nessun obbligo di garantire extraprofitti.
Il compito di riesaminare le concessioni autostradali dopo le evidentissime storture “finanziarie” degli ultimi anni e forse anche quelle sulla sicurezza probabilmente non compete ai giudici, ma alla “politica”.