L’ineffabile ministro Luigi Di Maio ha dichiarato che quella a cui si sta lavorando sarà “la manovra del popolo”. Se sia del popolo non lo so, sicuramente è una manovra azzardato: tipo inversione a U in autostrada a 190 all’ora. Di notte. A fari spenti. Con la nebbia. Sulla Serravalle o la Cisa. Ora, nel momento in cui stavo scrivendo, il destino di quella che un tempo si chiama Finanziaria appariva appeso a un filo: Lega e 5 Stelle non intendevano arretrare dal loro intento di sforare a rialzo il 2% di deficit, il ministro Tria rimaneva sotto assedio e tutto pareva destinato a trovare la cosiddetta “quadra” nel Consiglio dei ministri previsto dopo il rientro in Italia dagli Usa del premier Conte, nel tardo pomeriggio. Non so, ora che state leggendo, cosa sia successo. Non so se la ragionevolezza avrà prevalso, non so se Tria sarà ancora il ministro dell’Economia, non so se si sarà preso tempo. Paradossalmente, poco importa, scrivo al buio. Per due motivi: primo, se anche si troverà una raffazzonata quadratura del cerchio sul Def, da qui alle europee le ragioni di fibrillazione per la tenuta stessa del Governo non mancheranno, vedi l’esplosione del nuovo fronte giustizia in casa M5S dopo l’elezione del piddino Ermini a vice-presidente del Csm. Anzi, soprattutto se il voto bavarese del 14 ottobre si sostanzierà in un colpo al cuore della coalizione di governo tedesca Cdu-Csu-Spd, saranno scintille. Secondo, la strada è di fatto tracciata. Delle due, l’una, infatti: o siamo di fronte al classico sketch del poliziotto buono e poliziotto cattivo e tutto seguirà il naturale corso delle cose o qui rischiamo davvero una brutta fine, la quale però non sarebbe altro che l’epilogo del dramma sospeso dal 2011, tanto per spartire le responsabilità e non attaccare al muro unicamente questo esecutivo. 



Cosa intendo per sketch? A mio avviso, Lega e 5 Stelle si sono resi conto di essersi imbarcati in qualcosa che sul medio termine potrebbe far loro del male, nonostante i sondaggi parlino ancora di una luna di miele con la maggioranza del Paese. Certo, la Lega ha raddoppiato i voti dal 4 marzo e addirittura superato i grillini, ma ora il tempo degli spot stile “la pacchia è finita” e “i porti sono chiusi” pare terminato, occorre lavorare sui numeri e le cose concrete. E temo che non siano il forte del ministro Salvini, mentre ho la certezza che siano addirittura la kryptonite per il Movimento 5 Stelle. Quindi, potremmo essere di fronte a una crisi controllata, tipo demolizione dei palazzi. Si tira la corda, sapendo di recitare una parte (fattispecie che spiegherebbe la sostanziale “pazienza” fin qui avuta dai mercati) e la si fa rompere, di fatto avendo messo in sicurezza i conti: se infatti salta il Governo, la scelta è chiara. Esecutivo di transizione fino alle europee e poi si vede come va: il tutto, in attesa che Mario Draghi dica addio all’Eurotower e si segga al posto che da tempo lo vede come silente candidato in pectore. 



Certo, avremo qualche giorno di scossoni pesanti, ma un esecutivo di emergenza o salute pubblica, magari guidato da Carlo Cottarelli, vedrebbe le cosiddette “forze responsabili” pronte a sostenerlo, con l’appoggio pesante del Quirinale. E volete che, fiutata l’aria, dai banchi di Lega e 5 Stelle qualcuno non si smarchi, volendo precauzionalmente evitare di restare con il cerino in mano? Dal canto loro, Salvini e Di Maio potranno vendere la narrativa della morte politica sulle barricate, del sistema che si autotutela, dei tecnici sabotatori, di Soros e delle cavallette: vale tutto, l’importante è abbandonare la nave un minuto prima che si sveli il loro bluff. E tornare comodamente all’opposizione, loro ruolo naturale, per mettere in cassaforte quanto elettoralmente guadagnato in questi mesi di promesse a oltranza. 



C’è poi quello che sui mercati verrebbe definito il worst case scenario, ovvero la prospettiva peggiore. Quale? Il fatto che non sia una recita concordata e che davvero Lega e M5S vogliano tentare di governare il Paese con le loro ricette quantomeno originali, se non farsesche. E lì, signori, potremmo farci male. Ce lo mostrano due esempi di queste ore, decisamente legati fra loro – nonostante le migliaia di chilometri che geograficamente dividono i due Paesi in questione – e che potrebbero fare da nave scuola a quanto potremmo dover affrontare, magari con sfumature e gradazioni differenti, non fosse altro per le differenti matrici economiche e demografiche. Da qualche giorno, infatti, gira uno studio della Independent Authority for Public Revenue ellenica, inviato al Parlamento di Atene, visionato – guarda caso – mercoledì dall’Associated Press e quindi rilanciato nelle sue parti più salienti. L’argomento sono i conti della Grecia post-salvataggio e la conclusione, in prospettiva, allarma: lo Stato greco, infatti, è creditore a livello di tasse non riscosse da cittadini e imprese di qualcosa come 182,5 miliardi di euro al 10 agosto scorso, una cifra monstre che permetterebbe – se recuperata integralmente – di dimezzare di colpo il debito ellenico. 

Ora, di quella cifra, più di 80 miliardi rappresentano interessi, more e altre sanzioni accessorie per tasse non pagate da cittadini e imprese colpite da anni e anni di crisi, molte delle quali sono fallite, mentre altre hanno dovuto decidere se pagare le imposte allo Stato o tentare di restare a galla, priorizzando il pagamento di fornitori e stipendi. Di fatto, la stessa fattispecie di contenziosi che la Lega vorrebbe risolvere bonariamente con il suo condono mascherato da “Pace fiscale”, ancorché con il passare dei giorni e il lievitare della cifra, siamo ormai ben oltre la logica della tanto vituperata voluntary disclosure o dei rimpatri dorati di Tremonti. Per capirci e mettere le cose in prospettiva, quest’anno l’output economico totale della Grecia sarà di 184,7 miliardi di euro: di fatto, la stessa cifra del mancato introito fiscale. Il tutto, con 3,7 milioni di greci o circa il 60% del totale che ha pendenze di vario genere ed entità con il Fisco. 

Qual è il problema, in prospettiva? È duplice. La prima criticità è rappresentata in questa tabella, la quale ci mostra come la Grecia sia campione mondiale di lavoro nero ed economia fantasma parallela. E guardate secondi e terzi chi sono, ben in vantaggio sulla quarta, quella Norvegia che nessuno si aspetta? Italia e Spagna, di fatto i gemelli del goal degli ex-Piigs, epicentri della crisi del 2011. L’economia sommersa pesa per qualcosa come il 21,5% del Pil greco, quasi un quarto del totale! Ora, è chiaro e palese che le misure imposte alla Grecia dalla Troika abbiano pesantemente aggravato questa dinamica duplice e autoalimentante, ovvero lavoro nero fuori controllo ed evasione fiscale alle stelle, ma basta farsi un giretto nelle statistiche Eurostat pre-crisi dei debiti sovrani, quando in Grecia invece di mettere a posto e in sicurezza i conti si organizzavano Olimpiadi faraoniche e si andava in pensione a 40 anni (con la reversibilità che arrivava pressoché al 100% fino ai nipoti), per vedere che la dinamica è accresciuta ma non nata dal nulla, figlia unica e rinnegata della crisi e dell’austerity. Idem per l’Italia, perché andavo ancora alle elementari quando sentivo la buon’anima di mio padre, 43 anni di lavoro dipendente con la trattenuta alla fonte, lamentarsi dell’evasione e del nero dilagante. E c’era ancora il Muro di Berlino, altro che Troika. 

 

Bene, immagazzinate bene questi numeri e concetti. Ora passiamo brevemente all’Argentina, la quale – lo sapete – ha dovuto ricorrere a un prestito record da 50 miliardi di dollari dal Fmi per cercare di tamponare il tracollo del peso e l’andamento fuori controllo dei conti pubblici. Tutto risolto? No. Anzi. In primis, la prima tranche da 3 miliardi è stata bloccata, perché al Fmi il memorandum del governo Macri non andava bene. Secondo, perché i mitologici mercati hanno cominciato – sull’onda di questa speculazione – a chiedersi se 50 miliardi fossero sufficienti, autoalimentando un’ulteriore crisi del peso e – udite udite – un aumento deciso mercoledì di altri 7 miliardi di dollari del piano di salvataggio, il più grande di sempre. Questo, però, non significa solo che l’Argentina abbia ipotecato a vita la sua presunta sovranità sui conti pubblici, quella che piace tanto ai Fusaro ai Borghi e compagnia cantante, ma anche quella monetaria, quella che addirittura manda in deliquio i nostri Che Guevara filo-governativi. 

Sapete infatti quale condizioni capestro ha imposto il Fmi a Buenos Aires, dove giocoforza hanno dovuto accettare il ricatto, pena un altro default? L’istituzione di una zona di “non intervento” sul cambio, quando il peso fluttui in area 34-44 sul dollaro: ovvero, da ieri nonostante la sovranità monetaria, il tasso di cambio del peso sarà flessibile, ma non fluttuante. Decide, insomma, il Fmi. E questo, signori, per ottenere 7 miliardi in più nel piano di salvataggio (da ripagare, mica un regalo) su 50 già stanziati: vuol dire essere disperati a livello di canna del gas! 

Bene, cosa ci dicono queste due notizie poco trattate dai grandi media, se applicate come precedente all’eventualità disgraziata che Lega e 5 Stelle non stiano recitando la parte dei ribelli ma vogliano davvero arrivare allo scontro frontale con l’Ue, in nome di flat tax e reddito di cittadinanza? Che ormai, piaccia o meno, le entità sovranazionali controllano tutto, anche i governi cosiddetti sovrani. I quali, anzi, sono ancora più ricattabili, se soggetti a pesanti situazioni di indebitamento o squilibrio dei conti pubblici, come l’Argentina. Paradossalmente, la Grecia con l’euro ha pagato moltissimo alla Troika, ma meno di quanto pagherà Buenos Aires, destinata a un futuro da Stato commissariato per un cinquantennio almeno. E se arrivando davvero al redde rationem, partisse una dinamica da 2011 sul nostro debito, tale da mandare i conti pubblici a rischio sulla spesa corrente di gestione? Ovvero, pagare interessi sul debito, ma anche stipendi, pensioni e servizi? Il 2011 ci ha insegnato che ci vuole poco, che la palla di neve può trasformarsi in valanga molto in fretta, se qualcuno la spinge nella neve fresca della speculazione. E finora, noi ci siamo salvati. Perché tutti davano per scontato che il Rubicone del deficit non sarebbe stato sforato strutturalmente e sfacciatamente per spese quantomeno farsesche, quando invece dovremmo pensare ad abbassare il carico debitorio. 

Pensateci, perché se in Grecia arriva in Parlamento uno studio come quello che è arrivato sul mancato introito fiscale, significa che qualcuno su quei soldi ci ha messo gli occhi addosso. Li ha, di fatto, messi a bilancio alla voce “varie ed eventuali”. E, in un modo o nell’altro, si potrebbe volerli far rientrare, addirittura arrivando alla ratio estrema di controlli sul capitale, non a caso sperimentati proprio a ridosso della crisi del 2011 a Cipro, Paese piccolo che non avrebbe inviato shock sistemici, se non alla già “ricoverata” in rianimazione Grecia, per vederne l’effetto. E se il Fmi è arrivato a limitare la politica monetaria di un Paese sovrano come l’Argentina con il suo sovranissimo peso ormai dissanguato sul mercato dei cambi, cosa potrebbe accadere a un Paese che adotta l’euro ed è in squilibrio enorme all’interno di Target2? 

Il nostro debito deve dimagrire, mettiamocelo in testa. Non si scappa da questa logica e da questo epilogo, salvo fare la rivoluzione. Ma non con la scheda elettorale e Di Maio come condottiero, quella vera, con tutto ciò che essa impone: morti e galera, in primis. Quindi, preso atto della realtà, vale la pena suicidarsi, con questo fiorire di precedenti di limitazione della sovranità – totale e residuale – degli Stati o meglio abbassare i toni e cercare una mediazione intelligente, prima della resa eroica dopo una battaglia di slogan e poco più? 

Così la si dà vinta ai mercati, dite voi? Vero. L’alternativa però, all’atto pratico, quale sarebbe? Scegliete voi. Ma scegliete bene. Se si resta vivi, si può cercare di cambiare le cose con il tempo. Da morti, è un po’ difficile.