La nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) presentata dal governo non è stata accolta bene dai mercati, che hanno visto, a fine giornata di ieri, un calo del 3,72% dell’indice Ftse Mib e una salita dello spread fino a 267 punti base, con un rendimento dei Btp decennali al 3,15%. L’allarme degli investitori ha indebolito tutti gli assetti finanziari italiani, con le banche in prima linea per i rischi patrimoniali e il rincaro del costo della raccolta. Sul versante internazionale, il problema non è se l’Unione Europea si farà una ragione di un rapporto tra deficit e Pil al 2,4% nel prossimo triennio, ma se il governo sia in grado di prevedere gli effetti di queste scelte sull’economia del Paese. Infatti, non vi è alcun automatismo tra un aumento del deficit e un impulso alla crescita economica.
(Fonte: Repubblica.it)
Per questa ragione, sarebbe bene che si spiegasse approfonditamente e con chiarezza, come ha chiesto il presidente di Confindustria, il contenuto della manovra e in che modo si intendono far incrementare occupazione e investimenti. Dagli annunci di queste ore, in ogni caso, è scomparso il Mezzogiorno. O meglio, è stato del tutto dimenticato il tema degli interventi produttivi nell’area del Paese che ha iniziato a riprendersi di più, seppure ancora troppo lentamente, e che maggiormente può emergere nei prossimi anni, dati gli spazi aperti per l’attrazione di nuovi investimenti e per l’ampliamento delle basi lavorative.
Il “problema meridionale”, come lo chiamava Giuseppe Galasso, dovrebbe essere considerato un’opportunità di sviluppo per l’Italia intera e un’occasione per rafforzare misure come il credito d’imposta per gli investimenti e i contratti di sviluppo, che rappresentano – insieme a un taglio strutturale del cuneo fiscale – i principali strumenti di politica industriale per far procedere durevolmente il processo di crescita dei territori meridionali. Naturalmente, questo circuito virtuoso richiede scelte di ampia portata e non un semplice ricorso ai tradizionali mezzi di trasferimento del reddito, attraverso l’ampliamento della spesa e del debito pubblico, che hanno contrassegnato la parte peggiore e subalterna della storia del Mezzogiorno. La scelta di puntare solo sul reddito e sulla domanda meridionali ripropone una visione meramente assistenziale, che può fruttare nuovo consenso, ma in un orizzonte molto limitato e con notevoli rischi.
Tuttavia, se si riprende a ragionare inforcando le lenti giuste della storia economica, come ha fatto nel suo intervento di ieri Giorgio Vittadini, si può capire che in altre epoche, di fronte a problemi di analoga portata, furono assunte decisioni utili e lungimiranti. Dopo la ricostruzione postbellica, infatti, l’Italia fu in grado di andare avanti come un’unica e compatta nazione, facendo dell’intervento dello Stato una leva per realizzare lo sviluppo produttivo, soprattutto nel Sud che mancava di una struttura industriale, e per procurare una reciprocità di convenienze alle due parti del Paese. In questo modo, attraverso l’azione lungimirante della prima Cassa per il Mezzogiorno, quella di Gabriele Pescatore, il Mezzogiorno crebbe più del resto dell’Italia e contribuì a quella “doppia convergenza” – tra il Nord e il Sud e tra l’Italia nel suo insieme e le parti più avanzate dell’Europa – che fu alla base del miracolo economico italiano.
Questo risultato eccezionale non fu dovuto a uno statalismo senza limiti, ma a un intervento pubblico che, alla maniera di Pasquale Saraceno, aveva promosso un “keynesismo dell’offerta”, con una capacità di sostenere l’accumulazione produttiva, di estendere l’occupazione e di creare condizioni persistenti di mercato. Quelle che si stabilirono al Sud non furono cattedrali nel deserto, ma imprese produttive in grado di generare sviluppo strutturale.
Oggi, piuttosto che a quel modello in quanto tale, bisogna riportarsi a quello spirito nazionale, a quella consapevolezza dei gravi problemi del Paese e delle sue classi più deboli, al ruolo che l’impresa e i lavoratori svolsero e possono ancora svolgere per realizzare uno sviluppo produttivo, non una decrescita infelice. In un’epoca diversa dalla golden age tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, si può cogliere una nuova possibilità di crescita, solo a patto di guardare in faccia alla realtà. Di fronte ai grandi sommovimenti della globalizzazione, alla competizione aperta tra giganti dai piedi d’acciaio come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, non serve fuggire nelle anguste dimensioni di un piccolo Paese. L’Italia potrà tornare un grande motore di civiltà e di benessere se tornerà a pensare e agire in grande. Non se baserà avventurosamente il prossimo futuro sullo sperpero delle sue scarse disponibilità, sull’aumento del debito e su un progetto di distribuzione effimera di risorse, a danno dei giovani e della sua economia.