In un bel libro sul teatro in musica, Lorenzo Bianconi analizzando il libretto de Il Barbiere di Siviglia si sofferma sul termine infinocchiare, impiegato più volte da Don Bartolo in una celebre aria del primo atto e sottolinea che si tratta di una locuzione “familiare”, ma gentile e arguta per esprimere “imbrogliare”.



È quanto è avvenuto al vicepresidente del Consiglio e ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, quando ha siglato quella parte del contratto di governo che riguarda un suo cavallo di battaglia: la riduzione delle “pensioni d’oro” al fine di elevare a 780 euro al mese i trattamenti più bassi e realizzare così almeno in parte il “reddito di cittadinanza”. Nel vagliare il testo, Di Maio ha probabilmente contato sulle proprie conoscenze di matematica (o meglio aritmetica) e di statistica e non si è accorto di essere infinocchiato da chi utilizzava esperti di calibro.



Ricordiamo i punti principali. Durante la campagna elettorale, la Lega e il M5s, che erano su fronti contrapposti, avevano, in materia previdenziale, obiettivi e priorità differenti, che rispecchiavano abbastanza fedelmente i “blocchi sociali” di riferimento. Per la Lega la priorità era di cancellare o modificare drasticamente la cosiddetta legge Fornero, che collega l’età legale di pensionamento con l’aspettativa alla nascita (pur prevedendo sistemi speciali per coloro che hanno cominciato a lavorare molto giovani – “precoci” – e coloro in attività “usuranti” e contemplando forme di uscita prima dell’età di pensionamento). I piccoli e medi imprenditori e i lavoratori autonomi del Nord, che rappresentano il nerbo dell’elettorato della Lega, si considerano, a torto e a ragione, vessati da una norma che li costringe oggi a “restare al chiodo” sino a 67 anni e tra breve potrebbero vedersi portata a 70 anni od oltre l’età della pensione: quasi quello che in queste settimane sta facendo Vladimir Putin nella Federazione Russa con una “riforma della previdenza” che porta l’età per andare in pensione all’aspettativa media di vita alla nascita, al fine di avere pochi pensionati a carico delle casse pubbliche.



Per il M5s l’obiettivo era una grande operazione redistributiva: prelevare dalle pensioni considerate elevate (quali che fossero i contributi versati) per portare a 780 euro al mese le pensioni minime o “assegni sociali”. Il contratto di governo prevede un compromesso: rimodulazione della legge Fornero e delle pensioni che superano i 5mila euro netti al mese. Per la rimodulazione della legge Fornero c’è anche una specifica: si andrebbe in quiescenza, a partire dai 64 anni età, se tra anni lavorati ed età anagrafica si giunge a quota 100.

Ci si accorge ben presto che i costi all’erario sarebbero tra i 14 e i 20 miliardi di euro l’anno (stime, a mio avviso, eccessive, perché il mercato del lavoro sta cambiando e si tende naturalmente ad andare più tardi in quiescenza). In ogni caso, la “riforma” o il suo inizio sarebbero cominciati con la preparazione della legge di Bilancio quando gli uffici tecnici e gli esperti previdenziali delle forze politiche avrebbero potuto effettuare le analisi necessarie e rivedere con cura i numeri. Ma Di Maio ha fretta di avere le luci della ribalta, dato che l’altro vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, sta prendendo, con l’immigrazione, tutto lo spazio mediatico.

Per lealtà istituzionale, l’Inps gli fa notare che con i percettori di pensioni complessive (che cumulano al proprio trattamento Inps quello di reversibilità, di invalidità, di danni a causa di terrorismo) si arriva a 30mila persone, di cui meno di 10mila titolari di pensioni “proprie” di 5mila euro netti al mese: dall’ipotetica riduzione si sarebbero ricavati circa 300mila euro l’anno, troppo poco anche soltanto per dare inizio a un’operazione redistributiva tramite un fondo presso il ministero del Lavoro.

Allora, senza consultare l’altro contraente del contratto di governo Di Maio sposta l’asticella dai 5mila ai 4mila euro, irritando non poco la Lega. I soggetti da cui pescare, tagliando i loro trattamenti previdenziali, diventerebbero 100mila. Ai capigruppo alla Camera di Lega (Molinari) e M5s (D’Uva) viene chiesto di predisporre al più presto una proposta di legge che sarebbe dovuta diventare un collegato alla legge di Bilancio. I due ci provano e consultano l’Inps, da dove giunge una conferma agghiacciante: un ricalcolo dei trattamenti sulla base di contributi versati non può essere fatto per i dipendenti pubblici; per questi ultimi, i dati esistono solo a partire dal 1996.

All’Inps ripescano un articolato intitolato “Non per Cassa ma per Equità”, proposto alcuni anni fa dall’attuale presidente dell’Inps, Tito Boeri. La proposta si articola su un meccanismo complesso, in base al quale le pensioni verrebbero ricalcolate sulla base del differenziale tra l’età effettiva in cui il soggetto è andato in pensione e l’età per la pensione di vecchiaia. Si colpirebbero soprattutto ultra-ottantenni che sono andati in quiescenza o perché la normativa dell’epoca prevedeva un’età più giovane per pensioni di vecchiaia (donne, militari) o a ragione di crisi settoriali e aziendali e facilitazioni al pensionamento di anzianità (stampa, siderurgia, metallurgia, metalmeccanica) – proprio l’elettorato a cui si rivolge la Lega. È partito un vero e proprio “altolà”, mentre l’Inps è stata inondata di raccomandate che chiedono il metodo e i dettagli per un eventuale ricalcolo.

A questo punto, la Lega ha tirato fuori dal cassetto una controproposta, predisposta dal presidente del centro studi Itinerari Previdenziali, Alberto Brambilla, e da altri specialisti quali Gianni Geroldi e Antonella Mundo (non necessariamente leghisti della prima ora come Brambilla). Il documento analitico a supporto della proposta sottolinea che se si vuole dare un segnale di “rafforzamento del patto intergenerazionale” si potrebbe percorrere la strada del contributo di solidarietà, che pure presenta profili costituzionali (si vedano le ultime sentenze della Suprema Corte), ma che se previsto per un periodo limitato (3 anni) e finalizzato a garantire una maggiore sostenibilità del sistema stesso, con criteri di proporzionalità, ragionevolezza e progressività, può soddisfare i principi definiti dalla Corte e può consentire una copertura dei costi iniziali di due importanti strumenti: il fondo per l’occupazione e il fondo per la non autosufficienza.

Considerando che il nostro sistema è a ripartizione (le pensioni di oggi si pagano con i contributi dei lavoratori attivi di oggi), risulta immediato l’interesse dei pensionati a pagarsi una “polizza” che favorisca una maggiore e più ampia occupazione attraverso un contributo di scopo per il “Fondo per l’occupazione”, che tuttavia, per soddisfare i requisiti della Corte, dovrebbe essere spalmato su una platea più numerosa di pensionati. Non si tratta, quindi, di una “imposta”, ma di una contribuzione straordinaria per rafforzare il sistema pensionistico, consolidandone la sostenibilità di medio-lungo termine, in previsione di ulteriori misure finalizzate a dare occupazione al maggior numero di soggetti (risistemazione degli attuali strumenti di sostegno al reddito, dei fondi per la formazione, riduzione del cuneo fiscale).

L’obiettivo è quello di raggiungere nel giro di 3 anni i 24 milioni di occupati, portando sopra il 61% il tasso di occupazione e all’1,5 il rapporto attivi-pensionati. In sostanza, si tratta di un aumento di circa 250mila unità l’anno per 3 anni. Dopo il terzo anno il fondo verrebbe alimentato da un contributo dello Stato favorito da maggiori imposte dirette e indirette versate da questa nuova platea di occupati, che quindi autoalimenterebbero il fondo; altre risorse, soprattutto per il fondo per la non autosufficienza, proverrebbero dalla realizzazione del Casellario dell’Assistenza, che potrebbe produrre, con l’eliminazione di duplicazioni e prestazioni improprie, circa 5 miliardi l’anno.

Applicando il contributo di solidarietà, i risparmi sono molto più alti dell’ipotetico ricalcolo e valutabili in circa 1,2 miliardi netti per ogni anno, da usarsi per finanziare il “super ammortamento” del costo del lavoro al 130% per chi assume un under 29 o un over 57 o una donna over 50, per poi arrivare al 100%, al quinto anno di assunzione; questo credito d’imposta (da calcolarsi sulla RAL aumentata del valore dei contributi sociali Inps e Inail) e di importo massimo per il primo anno di 7mila euro per ogni assunto (che decresce del 20% l’anno) è alternativo alla decontribuzione prevista dai governi precedenti che va a beneficio anche delle aziende decotte. Il tutto con il coinvolgimento delle parti sociali – ignorate dalla proposta Molinari e D’Uva – che rappresentano questi lavoratori.

Si potrebbe pensare di sottoporre tutte le pensioni da 2mila euro lordi (ma questa è una decisione eminentemente politica) a un contributo di solidarietà (di cui lo 0,40% verrebbe versato al fondo per la non autosufficienza e il resto al fondo occupazione) che cresce progressivamente fino al 12-15% per le pensioni più elevate; il contributo è calcolato sulla base dei singoli scaglioni di pensione (non sull’importo totale). Tra l’altro ciò consentirebbe di dare un sollievo alle famiglie che si trovano con un non autosufficiente, raddoppiando l’indennità di accompagnamento quando un soggetto non è autosufficiente in tre funzioni su cinque (più un plus per casi particolarmente gravi); sono veramente tante a oggi le famiglie o i singoli individui in grave situazione, considerando che la pensione media della gran parte dei pensionati vale la metà della media delle rette richieste dalle RSA.

Di Maio, infinocchiato e inviperito, sbraita e insiste perché la proposta Molinari-D’Uva venga calendarizzata e “migliorata” in Parlamento. Ha trovato il supporto anche di qualche autorevole parlamentare leghista. Non si è accorto, però, che potrebbe trattarsi di un ulteriore tranello: tra Commissione e Aula, molti dei fumosi punti della proposta Molinari-D’Uva potrebbero essere abbandonati e incorporati in quelli di Brambilla e altri; punti che colpirebbero il suo elettorato. Di Maio rischia di avere ancora la luci della ribalta: del varietà o dell’avanspettacolo.

Le divergenze tra alleati di governo, e a maggior ragione tra quelli che alleati non sono ma hanno unicamente stipulato un “contratto”, hanno più volte fatto esplodere un Esecutivo. Non è la prima volta. E la Lega lo sa bene.