I robot sostituiranno presto il lavoro umano lasciando dietro di sé solo disoccupazione di massa? Il timore è talmente diffuso che l’Università di Oxford prima fa uno studio, poi avverte che il 47% dei posti di lavoro degli Stati Uniti è a rischio a causa robot e McKinsey & Company ne stima circa un terzo in pericolo. Numeri incontrovertibili? Beh, a riguardo si dice pure altro, ma, a meno che non si speri nell’intervento dei neo-luddisti, questi dati stanno pericolosamente sopra le nostre teste: meno lavoro. Già, quel lavoro che pur tocca fare per avere in tasca i denari per fare la spesa. Giust’appunto, quella spesa per fare la crescita e generare ricchezza e che toh… rigenera il lavoro. Cos’altro sennò?
Non divaghiamo, torniamo a bomba: Mark Paul, autore del report del Roosevelt Institute “Don’t fear the Robots”, aggiunge pure altro: negli Stati Uniti dal 1948 al 1973 la produttività è aumentata, soprattutto grazie all’innovazione, del 96,7%. Nello stesso periodo i salari orari sono cresciuti del 91,3%. Le cose cambiano dagli anni Settanta: dal 1973 al 2014 la produttività cresce del 72,2%, i salari orari solo del 9,2%. Qui non c’è Ludd che tenga: stesso lavoro, meno reddito per poter fare quella solita spesa che tocca fare e che genera la ricchezza per tutti.
Dopo aver sbirciato i dati Paul commenta: la quota prodotta dagli incrementi di produttività è andata a remunerare sempre meno i lavoratori e sempre più profitti e rendite. Poi si lancia in un’invettiva: “Non esiste una legge economica che affermi come i lavoratori debbano perdere quando vengono introdotte innovazioni (…). Se il capitale oggi esercita più potere sul lavoro rispetto al passato è a causa di scelte politiche, non della tecnologia”. Ci risiamo, dal luddismo al dir ludico basta un attimo. Sì, perché la politica, quella insipiente e attardata, la si può sempre tirare in ballo, magari suonando la vecchia litania dello scorno tra destra e sinistra; tra capitale e lavoro.
E se provassimo a mettere in campo altro? Proviamo. Dunque se lo sviluppo tecnologico sembra aver generato lo squilibrio, lo aggrava pure l’impiego di un anchilosato meccanismo di trasferimento della ricchezza. Già, la ricchezza viene generata dalla spesa, intascata dall’impresa, viene poi trasferita per remunerare i fattori produttivi: capitale e lavoro. Bene, se il lavoro viene a mancare per l’automazione dei processi e quello che resta risulta sotto pagato, al capitale resta in tasca buona parte di quel malloppo.
Ingiusto, stanno in conflitto d’interesse, dite? Macché, ancor di più, fallaci! Dunque, la fallacia nel meccanismo si mostra quando quelli a cui viene a mancare il malloppo mancano alla spesa e quelli che ne hanno incassato troppo, pur dopo aver fatto la spesa, ne hanno ancora in tasca. Così, vista l’aria che tira, quel resto non lo usano manco per fare spesa per gli investimenti. Il mancato prelievo fiscale dai fattori contrae pure la spesa pubblica. Rei tutti, insomma, di renitenza a quella spesa che, nell’economia dei consumi, configura grave illecito: la produttività totale dei fattori si riduce, si amplia invece il gap dell’output.
Beh, se questo andazzo fa predire, ai soliti ben informati, la “stagnazione secolare”, quelli ottimisti di maniera non vogliono perdere l’occasione di far salire quel debito/Pil [1] per surrogare la crescita. Signori della politica, sì dico a voi, s’ha da cambiare per poter disporre di una economia resistente. Per farlo il meccanismo di trasferimento delle risorse economiche, generate dal ciclo, dev’essere adeguato per potersi far carico di un remunero di scopo (nel mondo ci sono grandi imprese che lo hanno adottato: rende!), fin qui evaso, per rifocillare quell’esercizio di consumazione [2] che altrimenti spende in deficit. Esercizio che, proprio per fare la crescita economica, si è reso indifferibile: obbligato! Farlo, magari costruendo un ambiente normativo adeguato alla bisogna, non di destra, né di sinistra e che faccia comodo agli elettori di entrambi. Per voi estensori, un corposo tornaconto elettorale con la benedizione di tutti.
[1] Secondo gli ultimi dati ripresi dall’Institute of International Finance, nel primo trimestre 2018 il debito è salito di 8 mila miliardi di dollari superando i 247 mila miliardi di dollari, ovvero il 318% del Pil mondiale.
[2] Esercizio che, impiegando risorse scarse, tempo/attenzione/ottimismo, trasforma con l’acquisto le merci in ricchezza; consumandole fornisce l’input per far riprodurre, genera occupazione, lavoro; fornisce continuità al ciclo e sostanza alla crescita; con l’Iva pagata rifocilla parte della spesa pubblica; con i risparmi, la spesa per gli investimenti delle imprese.