Il taglio alle pensioni d’oro polarizza la discussione in questi giorni, palesando, di fatto, due anime del Governo, quella gialla e quella verde, che non sempre collimano nelle loro vedute. Caro alla parte gialla è il reddito di cittadinanza, per il quale si cerca di reperire risorse; caro alla parte verde è mandare in pensione i lavoratori qualche anno prima (a 64 anni con “quota 100”), superando (o addirittura cancellando, come inizialmente scritto nel programma) la riforma Fornero. Ne nasce un dibattito a tratti “semi-onirico”, per così dire, quale quello attuale sulle “pensioni d’oro”, superiori a 4mila/5mila euro netti al mese (qui ancora non si sa dove collocare l’asticella), o a 80mila euro lordi all’anno.
A mio modesto parere, il problema ha un suo fondamento. La maggior parte delle pensioni erogate dall’Inps nel 2018 (dalle gestioni lavoratori dipendenti, coltivatori diretti, coloni e mezzadri, artigiani, commercianti e parasubordinati, esclusi i lavoratori pubblici) è ancora calcolata con il vecchio e più generoso sistema retributivo (oltre 11 milioni di pensioni su un totale per regime di liquidazione di circa 13,5 milioni), mentre il numero delle pensioni erogate con il sistema contributivo puro è ancora molto basso: poco più di 550mila. Benché il sistema contributivo sia stato introdotto dalla “riforma Dini” fin dal 1996, in quell’occasione si creò un regime transitorio che consentiva ai lavoratori con 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 di andare in pensione con il previgente sistema di calcolo, anomalia poi rimossa dalla riforma Fornero a decorrere dalle anzianità contributive maturate dal 1° gennaio 2012. È curioso che una riforma attuata a decorrere dal 1996 e destinata fin dall’origine a contenere e stabilizzare la spesa pensionistica non sia oggi ancora entrata a regime.
Credo sia questo, in realtà, il problema che si cela dietro le parole di Di Maio, forse un po’ semplicistiche: “Il signor Rossi ha versato effettivamente contributi per 5mila [di pensione], mentre il signor Bianchi ne ha versati solo per 4mila. Con la nostra legge il signor Rossi continuerà a prenderne 5mila, mentre il signor Bianchi inizierà a percepirne 4mila, ossia quello che ha versato”.
Non è molto chiaro, infatti, come si faccia a quantificare la riduzione della quota retributiva della pensione del signor Bianchi: se si applica un coefficiente di trasformazione (come nel sistema contributivo), non pare corretto stabilirlo come rapporto tra il coefficiente di trasformazione relativo all’età al momento del pensionamento e quello corrispondente all’età prevista per il pensionamento di vecchiaia (così come sembrerebbe dalle prime bozze del progetto di legge circolato sulla stampa), perché occorre tener conto dell’età attuale del signor Bianchi e della sua aspettativa di vita: se il signor Bianchi, per esempio, ha 70 anni ed è andato in pensione a 58 anni, ipotizzando l’attuale età per il pensionamento di vecchiaia (67 anni), il coefficiente che verrebbe applicato in sede di ricalcolo sarebbe totalmente arbitrario e, quindi, arbitraria sarebbe anche la riduzione del vitalizio, a prescindere dalla sua percentuale.
Altre criticità si aggiungerebbero, poi, sul piano tecnico, dovute alla difficoltà di reperire i dati storici delle singole posizioni: secondo il centro studi Itinerari Previdenziali, il 51,5% delle pensioni superiori ai 4mila euro mensili proverrebbero dalla Pubblica amministrazione, dove i dati contributivi relativi agli ultimi 5-10 anni non sono facili da ricostruire.
Sempre secondo Itinerari Previdenziali, essendo circa 80mila i ricchi pensionati interessati, l’operazione intera consentirebbe risparmi per circa 580 milioni di euro per il primo anno e per 330 milioni a regime, che si tradurrebbero in un contributo irrisorio agli ambiziosi obiettivi del programma di Governo.
Volendo porre la questione sul piano dell’equità, più che su quello economico, come ha sostenuto qualche esponente politico, occorrerebbe riflettere sul fatto che chi percepisce un trattamento pensionistico cospicuo (non molti, abbiamo visto) non è per definizione un “ladro”, avendo conseguito la pensione in base a una normativa previdenziale proposta, discussa e approvata da un Parlamento democraticamente eletto. Perché dovrebbe essere più iniquo di chi percepisce pensioni di importo minore, ma conseguite dopo soli 15 anni di lavoro, come nel caso delle cosiddette baby-pensioni elargite in passato? Sono oltre 680mila le pensioni erogate dall’Inps (trattamenti di vecchiaia, invalidità e superstiti, esclusi i dipendenti pubblici) con data di decorrenza anteriore al 31 dicembre 1980 a un’età media di 44 anni.
La norma, se varata, si esporrebbe così a seri rischi di incostituzionalità, con buone probabilità di successo dei ricorsi, anche alla luce della particolare tutela riconosciuta dalla Corte costituzionale ai trattamenti pensionistici, come insegna la recente storia in ambito di blocco della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo Inps, introdotto per gli anni 2012 e 2013 e bocciato dalla Corte nel 2015. Il conseguente rimborso si tradurrebbe, poi, in maggiori oneri a carico dello Stato.
A voler fare il Robin Hood a ogni costo, a volte ci si trasforma nel suo contrario.