E’ strano come toccare certi temi — e ricordare qualche solida banalità — porti automaticamente, e a stretto giro, a repliche spiritose, che lamentano la tendenza a fornire risposte semplici a problemi complessi. Ma ci sta. 

Per questo non deve stupire il tono di chi è rimasto tanto sorpreso dallo scoprire qualcosa che in genere si studia al primo anno di giurisprudenza — e cioè che a) in Costituzione le leggi-provvedimento ci sono, che b) in certi casi tassativamente indicati (energia, servizi pubblici e monopoli) si possono trasferire per legge diritti dei privati allo Stato o a comunità di utenti, e c) che questo è già stato fatto senza che l’Europa abbia avuto troppo da dire. 



E’ bene che ricordare tutto ciò sembri la trovata di qualche mattacchione inconsapevole della straordinaria complessità del tema che si arrischia a toccare. Ora, senz’altro quel mattacchione è inconsapevole della reale consistenza degli interessi coinvolti da quel tema, anche se un’idea crede di essersela fatta, inanellando dati alla portata di tutti sulle partecipazioni azionarie di Atlantia, di cui i Benetton, e le società del loro ramificato indotto (e cioè, per capirci, i contoterzisti), sono solo i terminali locali. Però quel mattacchione è consapevole del fatto che certe cose scritte in Costituzione costituiscono un’opzione che deve essere valutata dalla politica. E si stupisce che nel dibattito attuale certe opzioni non siano neanche menzionate. Sicché quando le si ricorda si deve far partire un po’ di controbatteria.



Certo che non c’è bisogno di leggere ilsussidiario.net per trovare la facile soluzione al problema delle concessioni autostradali, come ci dice l’Economista. Basta aver fatto un esame di diritto costituzionale — o di istituzioni di diritto pubblico, che è poi un diritto costituzionale per economisti — del primo anno per avere un quadro più realistico delle opzioni in campo. Alla bisogna si può riprendere in mano quel manuale dimenticato dai tempi della giovinezza. 

E allora, se lo si facesse, si scoprirebbe che in quei tre settori — e, si badi, solo in quelli — lo Stato, salvo indennizzo, può trasferire per legge a sé o a soggetti privati diritti che non sono solo diritti di proprietà: anche diritti che nascono da contratto o da concessione. E lo può fare senza fare alcuna revoca e senza impelagarsi in un’estenuante trattativa con un concessionario che, visto quello che è successo il 14 agosto, ha tutto l’interesse a rendere più complesse cose che alla fine troppo complicate non sono. Nonostante quel che conviene dire.



Ovvio che in caso di trasferimento per legge di quei diritti il problema sarebbe l’indennizzo all’espropriato, che rischia di avere tanti, tanti zeri. Ma, a parte il fatto che ci sono stati tanti tanti morti, e tanti tanti zeri hanno le cifre che lo Stato non incasserebbe lasciando le cose come sono, c’è da capire una cosa, e cioè che, se vogliamo andare sul pedante (ma importante) un “indennizzo” non è per definizione un “risarcimento”. E’ un “ristoro parziale” della perdita subita dall’espropriato che deve essere parametrato al “valore di mercato” del bene trasferito, tanto da coincidere talvolta con questo. Il punto è che sarei curioso di sapere come si fa ad attribuire un valore di mercato ai diritti di sfruttamento di un monopolio naturale.

Mi spiego meglio: il monopolio è, per definizione, un’area di attività economica sottratta al mercato e alle sue “leggi”. Dove c’è monopolio non c’è né concorrenza, né mercato. Tant’è vero che, da sempre, nella teoria economica la creazione di un monopolio è qualcosa da evitare come il fuoco, perché raggiungere una situazione di monopolio è il sogno proibito di ogni imprenditore che si rispetti. E, nella vulgata ordoliberista, che di questi discorsi vecchi come Smith e Ricardo è l’estrema caricatura, proprio per evitare che nella libera corsa del libero imprenditore nel libero mercato ci sia qualcuno che raggiunge il traguardo del monopolio (o dell’oligopolio), sono state inventate quelle autorità di regolazione che tanta prova di sé hanno dato negli ultimi anni. Insomma, ci sarà un motivo se un gioco altamente formativo come il Monopoli si chiama così, e vince chi prende tutto e fa Monopoli(o). 

Dopodiché sappiamo che, a volte, ci sono situazioni di monopolio che non si possono evitare. E’ il caso, ad esempio, delle autostrade, dove per definizione il giochetto di dividere la gestione della rete dalla gestione del servizio — come, per capirci è il caso di luce, acqua e gas — non può funzionare. Si chiamano monopoli naturali o necessari ed è il caso, guarda un po’, delle autostrade, che sono un settore di attività economica ambitissimo perché è escluso dalle regole di quel mercato che oggi si invoca a tutela del monopolista. E capirete che invocare libera iniziativa e regole del mercato per parlare di un settore che per definizione è escluso dal mercato dovrebbe suonare un po’ strano.

Perché questa premessa? Perché se è vero che il valore dell’indennizzo deve essere parametrato al valore di mercato del bene espropriato, il fatto di trovarci a parlare di una situazione di monopolio necessario qualche conseguenza ce l’ha. La prima è che non bisogna essere dei geni per capire che è difficile parlare di valore di mercato di un bene che per legge non può essere commerciato: fuori dal mercato nero, di cui non siamo ancora esperti, qual è il valore di mercato di un rene? La seconda è che il valore di mercato è senz’altro determinato, in un mercato libero, dal libero accordo delle parti: ma questo non spiega niente. Certo che, se una casa mi piace, io la posso pagare anche dieci volte il suo normale valore: ma in genere — e più realisticamente — il valore di mercato di un bene commerciabile è parametrato sul valore dei trasferimenti di beni analoghi in un dato periodo di tempo. Senza grafici e formulette che soddisfino i cultori della complessità — e cioè senza cortine fumogene per gli allocchi — di solito per sapere qual è il valore di mercato di una casa che mi interessa vado a vedere quanto è stata pagata nell’ultimo anno e nello stesso quartiere una casa di metratura e caratteristiche uguali a quella che mi interessa. In una battuta il valore di mercato di un bene trasferito coattivamente si costruisce per relationem: e cioè induttivamente e con riferimento a situazioni analoghe. 

Si comincia a capire perché con riferimento ad un monopolio necessario non è possibile fare la stessa operazione? Perché letteralmente non ha senso parlare di valore di mercato con riferimento a) ad un bene non commerciabile b) il cui valore non può essere determinato nemmeno per relationem non essendoci casi analoghi a cui fare riferimento. Insomma, operare in un settore escluso dal mercato, retto da disciplina speciale, ha tanti vantaggi, ma può avere i suoi lati negativi. In fondo ogni medaglia ha due facce, persino per il monopolista naturale. Che paga e viene pagato in moneta sonante.

E allora come si determinerebbe il valore dell’indennizzo, fermo restando che avrebbe tanti tanti zeri? Se vogliamo essere coerenti, dobbiamo dire che possiamo averne un’idea, ma non possiamo saperlo a priori. E dire questo non è una stranezza, visto che il diritto non è una scienza predittiva, né, diversamente da altre cosiddette scienze, ha la pretesa di esserlo. In fondo, sappiamo davvero quanto andremo a pagare la casa che vogliamo acquistare? Possiamo avere un’idea di quanto costi, ma il prezzo finale dipende da come si svolge la trattativa. Il che però non vuol dire che il discorso sull’eventuale indennizzo del monopolista espropriato sia terra incognita

Una base per sviluppare il ragionamento potrebbe essere data dalla logica del “ristoro parziale”, costruito sull’ammontare della penale definita in concessione per la revoca, fermo restando un controllo su proporzionalità e ragionevolezza sull’ammontare determinato per legge, che sono due parametri usati ormai regolarmente dalle Corti costituzionali nazionali e europee. Non saranno un granché, ma sono sempre meglio di niente. E tenendo comunque in mente che quella strana clausola che viene brandita da Atlantia (e dai suoi disinteressati patroni) per chiedere, in caso di revoca della concessione, un ristoro con tanti tanti zeri qualche problema di nullità potrebbe averlo. Anche perché ai sensi di quell’art. 1229 cc. che si dovrebbe studiare sempre al primo anno di una facoltà di economia certe clausole di esonero di responsabilità hanno dimostrato una fastidiosa propensione ad essere dichiarate nulle nei tribunali della Repubblica. Tanto più se si considera che il 1229 cc. contiene al secondo comma una norma scritta proprio con riferimento alla “violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico”: segno che nemmeno nel 1942 si era inconsapevoli dei problemi che possono intercorrere tra concessionario e concedente. 

E allora ci si dovrebbe chiedere come mai, all’atto di redigere il contratto allegato alla concessione, ci si sia dimenticati di un articoletto del Codice tanto banale, e chi sia stato tanto smemorato. Si potrebbe dire di più, ma non è il caso di annoiare troppo il lettore che è arrivato fin qui. L’Economista amante della complessità si dovrà accontentare, anche perché se si vuole sapere di più mi si paga, così come lui è giustamente pagato per svolgere consulenze nel settore delle infrastrutture. L’Infrastruttura Costa. E non è un gioco di parole.

Anche perché c’è dell’altro. Se ci si chiede “quante imprese resteranno in questo paese sentendo ragionamenti simili?” la risposta non dovrebbe essere difficile e dovrebbe rasserenare tutti, compresi quegli investitori stranieri ai quali si riserva tanta attenzione. A patto però che si spieghi onestamente che le leggi provvedimento il Parlamento non se le fa a piacere, ma solo in quei tre casi che sono stati indicati all’inizio. E cioè in quei settori che quei signori che sedevano in Costituente, nell’arretratezza della loro cultura economica e nella loro pretesa, tipica della politica, di dare soluzioni semplici a problemi complessi, avevano ritenuto, chissà perché, meritevoli di essere assoggettate a disciplina speciale. Si sa che nel 1948 la teoria dei monopoli doveva ancora essere scoperta. Al di fuori di questi settori vale il sistema generale di garanzia previsto dagli artt. 41 e 42 Cost. che non è affatto diverso da quello che vige in tutti gli altri paesi d’Europa. Neanche questo dovrebbe essere difficile da capire da parte dell’investitore e dai suoi disinteressati consulenti locali.

Così come non dovrebbe essere difficile capire che, alla fine, se venisse fatta una legge provvedimento per chiudere la questione, e risolvere in radice tutti quei problemi che piace elencare, non verrebbe giù il mondo, né crollerebbe l’Unione Europea. Per questo basta informarsi sull’antica vicenda di un avvocato milanese di nome Costa che, dopo la nazionalizzazione dell’Enel del 1960, non voleva pagare la bolletta della luce, con argomenti simili a quelli esposti dall’Economista. E ricordare che in quel caso la stessa Corte di giustizia non aveva avuto molto da dire. Né avrebbe molto da dire adesso, se non volesse formalizzare e portare alle estreme conseguenze quel problema del conflitto tra Trattati europei e costituzioni nazionali che cova in tutta Europa dal 2011. Altro che caso Taricco. Per non parlare del fatto che i monopoli — e cioè i settori esclusi dal mercato — non piacciono molto nemmeno al diritto dei Trattati. I quali trattano i monopoli con molta circospezione.

Tutto facile e semplice allora? Niente affatto. Sono molte le cose da approfondire, ma si capisce che la situazione è molto diversa da come ha interesse a prospettarla chi, stranamente, parla di libero mercato per difendere un monopolio, oppure, solo per fare un esempio, chi opera professionalmente nel settore delle infrastrutture o in settori contigui. In fondo è comprensibile: i monopoli, in quanto settori protetti, generano sempre un esteso indotto di servizi la cui sopravvivenza dipende dalla sopravvivenza del monopolio di cui si alimenta. La fine del monopolio rischia di essere anche la ridefinizione dell’indotto che genera.  

Certo, questo discorso postula una politica forte, che arrivi alla legge magari dopo l’istituzione di una commissione d’inchiesta, e la questione di una non profit sarebbe tutta da costruire e da valutare nei dettagli. Si sa che dietro l’espressione non profit o cooperativa si nasconde una galassia dalle mille facce e dai mille diversi contenuti (Cfr. Giovanni Moro, Contro il non profit, 2014). Ma bisogna essere consapevoli che, accanto alla restituzione allo Stato dei diritti concessori, il trasferimento della concessione ad una cooperativa non profit è solo una delle opzioni disposte in Costituzione in casi del genere. Ed ha senso solo nel caso in cui si ritenga presenti vantaggi specifici o risulti politicamente impraticabile la restituzione al pubblico dei diritti di concessione. Ma che non si tratti di un’idea peregrina, che merita di essere seriamente valutata dalla politica, potrebbe essere spiegato all’Economista da un altro economista di qualche credibilità e con un discreto pedigree, come Giulio Sapelli, il quale, per chi non lo sapesse, ha avanzato per primo questa stessa proposta nei giorni scorsi.

E allora, c’è una morale alla fine di questa piccola vicenda? Certo che c’è. La morale è che nessuno insegna mai niente a nessuno e c’è solo gente che impara. Io mi limito solo ad aggiungere: impara se vuole e se ha interesse a farlo. E quei 43 morti e quelle centinaia di sfollati che, tutti assieme, fanno un nostro piccolo 11 settembre di Ferragosto e che testimoniano dell’interesse di noi tutti a non percorrere un ponte che ci si sbriciola sotto i piedi, dovrebbero essere un eccellente motivo per sforzarsi di ricordare le basi della disciplina del settore in cui ci si muove da un po’ di anni. 

In fondo il mercato è fatto dalle regole che governano interessi contrapposti. O no?