“Non potremo mai dimenticare” la tragedia del ponte Morandi, dice Gilberto Benetton nella prima intervista, al Corriere della Sera, rilasciata dopo il 14 agosto. Sarebbe mai stato possibile che avesse detto il contrario: “Stiamo dimenticando, dimenticheremo”? Naturalmente no. Promette “completa assunzione delle responsabilità che venissero accertate, qualora lo fossero”, ma sarebbe stato verosimile che avesse detto “respingeremo sempre e comunque qualsiasi addebito”? Ovviamente no. “Quando si sarà accertato compiutamente l’accaduto verranno prese le decisioni che sarà giusto prendere”, aggiunge; ma avrebbe mai potuto affermare che “saranno prese decisioni ingiuste”? Macché.
Insomma: pretendere di trovare sostanza e fatti nuovi nelle dichiarazioni difensive dei Benetton, come in quelle del management di Atlantia, è ingenuo. La difesa è legittima, è in ballo la morte di 43 persone, la distruzione di uno snodo cruciale per l’economia e la vita civile del Nord Italia, un disastro senza precedenti per violenza, devastazione, desolazione: accuse gravissime contro un gruppo di persone apicali, tutte da provare nella sostanza e nella forma, tanto che l’arrocco difensivo è giuridicamente sacrosanto, per quanto antiestetico.
No, non è per vie brevi e spontanee che potrà mai avviarsi a soluzione il caso Genova. Come già accaduto per il più diretto e choccante caso precedente, il disastro dell’autobus in Irpinia, che sfondò il guardrail il 28 luglio 2013 — e che attende ancora a più di cinque anni dai 38 morti la sentenza di primo grado — anche questa sciagura si trascinerà nelle aule giudiziarie per dieci anni prima di arrivare a un punto fermo.
E nel frattempo?
Non senza scivoloni di comunicazione, il governo gialloverde ha inveito sin dal primo minuto contro la Società Autostrade, addebitandole la colpa del disastro genovese ed ha avviato la procedura per la revoca della concessione. Subito, il folto mondo determinato a difendere chiunque venga oggi attaccato da questo governo ha replicato che invece le colpe sono di chi nelle istituzioni avrebbe dovuto vigilare affinché la manutenzione del ponte venisse fatta come necessario, sorvolando che — semmai — le colpe si riveleranno essere “anche” di chi avrebbe dovuto vigilare meglio, ma non certo soltanto loro.
Di sicuro, però la strada della revoca della concessione è lunghissima e incerta, irta com’è di ostacoli, giuridici ma anche logici. Vediamo.
Oggi la Società Autostrade non è quotata in Borsa, è controllata da un’altra società, Atlantia, che per il 70% non appartiene ai Benetton — cioè agli azionisti che hanno da sempre espresso il management che guidava l’azienda e che è in buona parte compreso tra i venti indagati per il disastro.
Questa società occupa quasi 16mila persone, si occupa anche di molte altre attività, oltre che di Autostrade per l’Italia, ed è in una fase di complessa e articolata integrazione col colosso spagnolo Abertis, al quale peraltro i Benetton nel 2006 avevano non solo pensato ma anche tentato di vendere le autostrade rinunciando poi al proposito in seguito ad una serie di impreviste reazioni politiche.
C’è chi dice che revocare la concessione ben 24 anni prima del suo termine costerebbe allo Stato una cifra enorme. C’è chi dice che invece questa cifra potrebbe essere risparmiata qualora le responsabilità della sciagura venissero eventualmente accertate in via definitiva dalla magistratura. Già: ma tutte queste considerazioni non fanno che ricondurre alla stessa domanda: intanto? Chi gestirà Autostrade per l’Italia? Chi ricostruirà il ponte?
La stessa Atlantia, con lo stesso vertice, sotto il cui governo è accaduto quel che è accaduto?
Chiediamoci con la massima serenità possibile: può essere accettata una soluzione simile? Ma d’altra parte, è praticabile in via immediata la soluzione opposta che il governo ha ritenuto di intraprendere, la revoca della concessione? Si direbbe proprio di no.
E dunque, nel frattempo?
Sul piano politico, la reazione che ha indotto i gialloverdi alla loro scelta — avviare la procedura di revoca — è stata demonizzata ma è invece salutare perché, se non altro, ricolloca al centro del dibattito la revisione delle molte scelte discutibili che ispirarono la campagna delle privatizzazioni degli anni Novanta e tuttora ispirano la gestione di molte infrastrutture e servizi di pubblico interesse che sono stati privatizzati. Ma è una reazione salutare sul piano politico e storico, non certo utile a risolvere subito il problema pratico.
Se andiamo in un ristorante e ci buschiamo una tossinfezione alimentare, ci torniamo la sera dopo, in attesa che la Asl decida se quel malessere è nato da un’incuria del cuoco o dalla semplice fatalità che ha fatto cadere nella pentola gocce di un veleno per caso disperso nell’ambiente della cucina? Di certo non ci torniamo. Ma è realistico che quel ristorante venga chiuso prima che si sia accertata la dinamica dell’avvelenamento? E’ pensabile chiuderlo, se è l’unico luogo dove può e deve nutrirsi la popolazione del quartiere? Neanche.
E dunque, uscendo dalla metafora: ha senso che vengano compromessi i valori economici oggi espressi dal colosso Atlantia, alla cui stabilità e continuità sono interessati 16mila dipendenti che nulla hanno a che vedere con le responsabilità del caso Genova e decine di migliaia di piccoli azionisti che nulla hanno da spartire con l’azionista di riferimento di quella società? Con tutta evidenza non ha senso.
Insomma: se è vero, com’è vero, che la legge 231 ha previsto la fattispecie del commissariamento delle società sotto indagine per aver governato male i propri processi di prevenzione della corruzione, non sarebbe giusto e logico valutare una soluzione analoga anche in questo caso?
Oggi appare difficile procedere in anni di inchiesta all’interno di un’azienda nel frattempo governata dalle stesse persone imputate. Appare difficile affidare alle scelte di queste stesse persone la gestione di una delicatissima e urgentissima ricostruzione che però va fatta senza risparmio e senza indugio.
E dunque una soluzione logica potrebbe essere quella di sottrarre alla responsabilità di quelle persone la gestione aziendale — almeno del ramo autostradale: sia per il rispetto e lo spazio che va riservato alle esigenze di giustizia sia per la necessità di garantire innanzitutto l’interesse pubblico nell’opera di ricostruzione.
Un commissariamento, dunque: capace di garantire, nell’interesse dei dipendenti e di tutti i soci, compreso quello di riferimento, la continuità aziendale dell’attuale concessionaria; capace di garantire anche la profittabilità della gestione e la distribuzione dei dividendi, forse capace di garantire perfino l’espletarsi dei piani strategici di internazionalizzazione con Abertis; ma — insieme — teso a garantire l’assoluta terzietà dei poteri interni all’azienda rispetto all’inchiesta e alle esigenze oggettive della miglior ricostruzione possibile.
E’ triste dirlo, ma certamente i commissari dell’Expo, dell’Ilva, dell’Alitalia, del Terzo Valico, della Parmalat hanno dimostrato sul campo di saper lavorare bene e anche meglio delle gestioni ordinarie che hanno sostituito, in quest’Italia espropriata della giustizia giusta e veloce che un Paese civile meriterebbe. E dunque un’ipotesi commissariale — in attesa delle verifiche sulla praticabilità dell’ardua scelta della revoca della concessione — potrebbe essere il minore dei mali.