Anche Luigi Di Maio s’è accorto che le cose non vanno affatto bene. Venerdì scorso ha annunciato un nuovo boom come negli anni ‘60 grazie alle autostrade tecnologiche, ieri ha detto che “se c’è crisi bisogna aiutare i deboli”, quindi la sua ricetta è come sempre il reddito di cittadinanza. Il decreto è slittato (sembra a giovedì prossimo) perché gli ostacoli sulla sua attuazione appaiono ogni giorno più ardui e ormai lo ammettono anche gli esponenti pentastellati del Governo. Complicato appare anche il provvedimento sulle pensioni, i cui contorni sono per ora indefiniti quasi quanto quelli del reddito di cittadinanza. Ma, al di là dei dettagli (nei quali come si sa s’annida pur sempre il diavolo), più tempo passa più appare chiaro che i presupposti stessi della manovra economica giallo-verde non reggono.
Il Governo si è insediato mentre era in corso una ripresa, era lenta e insufficiente (si parlava di ripresina), ma in ogni caso l’economia puntava verso l’alto, in pochi mesi, invece, ha svoltato verso il basso. Dopo i dati sulla produzione industriale di novembre (-2,6%) sembra inevitabile che la dinamica del prodotto lordo sia negativa anche nell’ultima parte del 2018; sarebbe il terzo trimestre consecutivo, il che significa recessione tecnica. Dunque, il 2019 comincia in discesa, il problema fondamentale del Governo è impedire che si trasformi in una valanga. È ancora possibile o è già troppo tardi?
La prima cosa sarebbe fare una operazione verità, smetterla con la facile propaganda e riconoscere che la Legge di bilancio è inadeguata, se non proprio sbagliata del tutto. E poi correre ai ripari. Il fulcro della manovra, infatti, è la redistribuzione di un reddito che non è stato ancora prodotto e che, se le cose continuano così, non verrà affatto prodotto. Il reddito di cittadinanza potrebbe portare dei benefici ai disoccupati, soprattutto al sud, ma nessuno può dire che si trasformeranno in consumi aumentando così la domanda interna. Abbiamo già visto che questo non è successo nel caso degli 80 euro. È probabile, ad esempio, che i sussidi servano per ridurre l’indebitamento delle categorie sociali più deboli. Ma anche se venissero tutti spesi per comprare nuovi prodotti e servizi non sarebbero sufficienti a compensare la caduta della domanda estera che rappresenta la causa principale della incipiente recessione.
Quanto alle pensioni anticipate il loro effetto potrebbe diventare persino pro-ciclico, cioè recessivo. Chi lascia il lavoro, infatti, riceve sempre un assegno inferiore all’ultima retribuzione percepita, soprattutto a quella di fatto che comprende straordinari, bonus e quant’altro. Quota 100, poi, comporta un’ulteriore rinuncia in cambio della possibilità di lasciare il lavoro prima dei 67 anni previsti dalla legge attuale. Anche i nuovi assunti, del resto, percepirebbero salari inferiori, quindi l’effetto combinato sarebbe negativo. Ciò rischia di ridurre la massa salariale che è la variabile fondamentale per determinare l’andamento della domanda interna.
Non solo. A ostacolare i rimpiazzi arrivano la caduta della domanda estera che ha trascinato finora le imprese e l’irrigidimento del mercato del lavoro introdotto dal “decreto dignità” fortemente voluto dai cinquestelle. È curioso come gli economisti arruolati da Salvini non abbiano capito che pensioni anticipate in un mercato del lavoro rigido non favoriscono nuova occupazione. O forse lo hanno capito e non glielo hanno spiegato o forse lo hanno spiegato e Salvini lo ha ignorato per non turbare l’alleanza giallo-verde. Chissà.
Dunque, non si può fare affidamento né sul reddito di cittadinanza, né sulle pensioni come antidoti alla recessione. Una ricetta anti-ciclica esiste, non è una panacea, se si alza l’onda nera nessun escamotage potrà fermarla, ma qualche diga si può sempre tirar su. Per esempio, è possibile agire sul costo del lavoro riducendo il cuneo fiscale e contributivo il che darebbe un sollievo alle imprese. È un onere per il bilancio pubblico e oggi non ci sono le coperture, ma il Governo ha escluso a priori ogni spending review e ogni taglio ai mille sprechi pubblici, dunque qualche grasso si può strappare dal pancione dello Stato.
C’è anche un altro argine, ma si scontra con un vincolo non tanto finanziario quanto politico: far partire subito i cantieri delle opere pubbliche, le piccole, ma soprattutto le grandi che bloccano decine di miliardi di euro e decine di migliaia di posti di lavoro. Ieri a Torino la manifestazione a favore della Tav ha riempito la piazza, ma a questo popolo Luigi Di Maio non ha intenzione di dare ascolto. Uno non vale uno, e nemmeno trentamila. Per le autostrade, quelle percorse da auto e camion, come per quelle attraversate dagli impulsi digitali, ci vogliono investimenti. E nella legge di bilancio per il 2019 non ci sono.