Cosa importa se la produzione industriale di questo Paese, il quale di manifattura ed export ci campa, è crollata. Cosa importa, se intervistato dal Corriere della Sera non più tardi di ieri, il ministro dell’Economia ha dichiarato candidamente che l’Italia è già in stagnazione. Cosa importa se l’attuale socio di maggioranza della coalizione contrattuale di governo sabato era simbolicamente in piazza a favore della Tav mentre l’uomo simbolo dei 5 Stelle diceva chiaramente che quell’opera non si farà mai e Beppe Grillo si chiedeva – nel corso di un suo spettacolo – come mai la sera del concepimento di Matteo Salvini sua madre non avesse preso la pillola. Cosa importa se l’applicazione del reddito di cittadinanza diventa di giorno in giorno più farraginosa e pateticamente iniqua, mano a mano che saltano fuori condizioni e paletti per evitare abusi. Cosa importa se quota 100 è solo un esperimento, la legge Fornero ancora valida e la flat tax una furbata per pochi intimi e gente che può pagarsi commercialisti creativi. Hanno catturato Cesare Battisti, la primula rossa è in trappola! Et voilà, una bella cortina fumogena – di quelle serie, degna dei festeggiamenti per la vittoria ai Mondiali – è pronta e servita, buona almeno fino alle regionali. Se non, addirittura, le europee. Quindi, il Governo potrà proseguire nella sua lenta ma inesorabile missione di distruzione dei residuo produttivo e industriale di questo Paese, vedendo i due vice-premier giocare al poliziotto buono e poliziotto cattivo e il buon Giuseppe Conte intervenire ogni tanto, recitando il ruolo del comandante di Dipartimento che media e mette pace fra i due.
Questo Paese, ormai, è una barzelletta conclamata. Anzi, un esperimento distopico travestito da Repubblica parlamentare. Per carità, intendiamoci subito: giusto che Cesare Battisti sconti la pena che gli è stata inflitta da un Tribunale e della quale si è fatto beffe per decenni, grazie immagino a una carriera da soffia con parecchi segreti a fargli da assicurazione sulla vita più che a capacità da mago della fuga e del travestimento, ma ho il timore che questa vicenda non resterà nell’alveo giuridico o politico ed esonderà nella propaganda più becera. Ma attenzione, perché sono tre le cose davvero interessanti da notare riguardo a quanto accaduto nelle ultime 48 ore, per il resto degno di un mattinale di Questura.
Primo, se la vicenda Sea Watch con il suo epilogo filo-buonista meritava una risposta che rimettesse le cose apposto e segnalasse con forza chi comanda, allora il ministro Salvini ha centrato l’obiettivo. Alla grande. Ma proprio l’aver utilizzato questa opzione nucleare (a disposizione da tempo, giova prenderne atto) così in fretta, dimostra come le voci che vedevano il leader leghista sempre più in difficoltà, soprattutto con il suo elettorato del Nord, non siano affatto ricostruzioni fantasiose di giornali e avversari. Come stessero le cose sul caso Cesare Battisti, lo ha detto chiaro e tondo il suo legale, il giorno dopo l’ennesima scomparsa dal Brasile, il 14 dicembre: «Se è fuggito, è perché lo hanno lasciato fuggire». L’effetto sorpresa, d’altronde, è importante per l’opinione pubblica, per la massa. È tutto. Non a caso, i format televisivi più di successo si basano su questo principio dello spiazzamento emotivo: Carramba che sorpresa!, Che posta per te, Scherzi a parte. Ci sono psicologi e sociologi dietro a ciò che vi propinano in tv, cosa credete?
La fuga di Battisti, quindi, assolve a un triplice compito: riportare in auge la vicenda nella memoria collettiva, far rimontare la rabbia e rendere ancora più epica l’impresa di catturarlo. Ed è bastato dare un’occhiata ai media e ai social network di ieri per rendersi conto che il ministro Salvini, in tal senso, ha compiuto un capolavoro assoluto. Peccato che il timing lo abbia tradito. Troppo in fretta, signor ministro, rispetto ai titoloni che la davano come sconfitto dell’ennesima disputa sui migranti, con il premier Conte incoronato da tutti come uomo del giorno. E l’abuso di coincidenze, in questo governo, è ormai cronico. Ma si sa, per gli ego smisurati come quello del ministro dell’Interno, certe sconfitte sono dure da digerire. E allora boom, si sgancia la bomba H per debellare un formicaio.
Perché signori, lo spauracchio degli anni di piombo, in questo Paese è un sempreverde, un cliché vincente come le ospitate di Fabrizio Corona in televisione: Sbatti il mostro in prima pagina, ci insegnava un mantra di quegli anni, magistralmente trasposto cinematograficamente da Gian Maria Volontè. E il ministro Salvini è un maestro nel creare mostri, nemici, obiettivi da abbattere e da additare al pubblico ludibrio delle bocche schiumanti rabbia del popolo che chiede gladiatori da sacrificare e leoni famelici. Ma, appunto, giocarsi ora quella che carta che era quasi certamente destinata al periodo immediatamente precedente alle europee, significa che il cosiddetto Capitano ha visto i sondaggi. E capito che l’aria cominciava davvero a farsi pesante. Coup de théâtre! Ma quanto durerà il nuovo flirt con l’opinione pubblica in nome del mantra della sicurezza e del filone law and order, stile ispettore Callaghan, se la recessione sceglierà la stessa strategia del ministro, ovvero metterà l’acceleratore e comincerà con licenziamenti di massa e nuove turbolenze sui mercati?
Secondo, il governo brasiliano in questa vicenda è coinvolto quanto Montolivo nella rosa del Milan di Gattuso. Zero. L’operazione è scattata in tempi record per due motivi, ovvero che tutti sapevano dov’era Cesare Battisti – da sempre, perché con le tecnologie attuali basta usare una carta di credito, un bancomat o fare una telefonata e sei fregato, se vogliono fregarti – e che il Brasile è ormai un avamposto di Usa e Israele in America Latina. E con entrambi i soggetti, il ministro Salvini ha ottimi rapporti. Soprattutto con il secondo, come confermano le gaffes strumentali e propagandistiche sui tunnel di Hezbollah al confine con il Libano.
Jair Bolsonaro è l’ennesimo pupazzo messo a guida di un Paese strategico dalle élites statunitensi, questa volta attraverso il morphing sovranista, senza bisogno di evocare complotti: lo fanno dal Secondo dopoguerra in funzione anti-Urss prima e anti-comunista in senso più vago e ampio poi, quindi non stupisce. Anzi, il Dipartimento di Stato lo ammette candidamente. Come ha fatto proprio sabato scorso il suo capo, quel Mike Pompeo non a caso ex numero uno della Cia, il quale ha commentato il giuramento di Maduro come presidente, promettendo che gli Usa riporteranno presto la democrazia in Venezuela. E il Brasile, insieme alla Colombia del neo-presidente di destra, sarà l’avamposto della nuova strategia latino-americana di John Bolton, vera testa pensante dei neo-con in seno all’amministrazione Trump. Non a caso, già inviso al Pentagono che non riesce a trovare un capo dopo il polemico addio del generale Mattis.
Insomma, il “regalo” a Salvini annunciato dal figlio di Jair Bolsonaro, altro non è che un favore che il nostro Governo, quantomeno nella sua componente leghista – ma con la sponda del furbo Conte -, dovrà restituire all’amministrazione americana. Punto. L’ennesimo, per carità e certamente non il più clamoroso, né scandaloso della storia post-bellica italiana. Ricordiamoci l’allora premier Massimo D’Alema con i casi Kosovo-Aviano, strage del Cermis e vendita di Ocalan alla Turchia e, immediatamente, Matteo Salvini diventa un misto fra Giuseppe Garibaldi, in quanto ad amor patrio e Padre Pio, in quanto a carità cristiana.
Sapete ad esempio quali saranno le prime due mosse del governo Bolsonaro? Privatizzazioni di massa, il tutto ovviamente ammantato dalla sacra battaglia contro la deriva comunista verso i beni pubblici messa in atto da Lula prima e Rousseff dopo, al fine di evitare una deriva venezuelana al Brasile. E tutti sappiamo quale strano concetto di privatizzazione abbiano in mente i vecchi Chicago Boys quando si muovono nel continente latino-americano: sfruttamento delle risorse. De facto, colonizzazione economica. La famosa Repubblica delle banane. A partire dal petrolio contenuto nelle rocce saline al largo del Brasile, finora a controllo statale di Petrobras e ora destinato ad appalti “liberi”. E la stessa Petrobras, non a caso, è in odore di privatizzazione. Indovinate chi ne beneficerà maggiormente?
Inoltre, intervistato da SBT TV, lo stesso Bolsonaro – a poche ore dal suo insediamento ufficiale – ha paventato la possibilità di concedere al governo Usa l’apertura di una base militare su suolo brasiliano. Casualmente, il giorno seguente alla difesa da parte della Russia del regime di Maduro in Venezuela, terminato sempre più prepotentemente nelle mire di Washington, in base alle “dottrina Cebrowski” che John Bolton vuole riportare in auge. «Al Brasile piacerebbe avere una supremazia qui in Sud America», ha confermato Bolsonaro. E i brasiliani cosa ne pensano del fatto di diventare il 51mo (o 53mo) Stato degli Usa? Nulla, perché sono troppo impegnati ad applaudire Bolsonaro che promette armi libere per tutti e che, come primo atto, ha inviato 300 militari armati di tutto punto a Fortaleza per stradicare la violenza delle gang rivali.
Per carità, sacrosanto: ma quanto ci resteranno da quelle parti, giusto il tempo che le telecamere del mondo si spengano sul Brasile e si possa operare in tutta discrezione verso i capitoli più spinosi, quelli che contano davvero, privatizzazioni in testa? Law and order, al suo meglio: vi ricorda qualcuno? Sicuri, quindi, che il ministro Salvini sia così legato alla Russia di Vladimir Putin come la vulgata emergenziale e allarmista vorrebbe? Attenti, perché prima che il tempo di questo Governo arrivi a scadenza, da Washington arriverà puntuale la richiesta di restituire il favore. Anzi, il “regalo”. Sia esso sotto forma di trivellazioni nello Ionio che, casualmente, se ritirate si scoprirà che comporteranno penali troppo alte da pagare o di sostegno ad avventure statunitensi di politica estera o energetica, magari contrapposte agli interessi europei. D’altronde, per i soggetti in questione, l’Europa é nemica comune.
Terzo, in tal senso, occorre registrare quanto riportato giovedì dal Times di Londra, il quale registrava la notizia di un accordo fra Angela Merkel ed Emmanuel Macron, denominato con enfasi quasi storica “Trattato di Aquisgrana” e destinato alla sua ratifica ufficiale alla fine di questo mese, per un coordinamento su materie come economia, politica estera e della difesa, in quello che il quotidiano britannico definisce un progetto di «creazione di eurodistretti transfrontalieri all’interno del quale i due Paesi potrebbero unire le reti di trasporti pubblici, acquedotti ed energia elettrica».
Sparata britannica in vista del voto di domani sul Brexit a Westminster? Può essere, di certo il Times ultimamente non brilla per imparzialità, ma il fatto che l’eventuale accordo non menzioni il tema spinosissimo, per entrambi i governi, della politica dell’immigrazione e di eventuali ricollocamenti, fa propendere per un qualcosa che abbia un fondamento. Quantomeno strategico, in vista delle europee. E, soprattutto, per fondere due debolezze in un’unica forza, ancorché su materie specifiche, in vista dell’arrivo della recessione. La quale avrà come punta di diamante la crisi dello strategico, per entrambi le potenze, comparto automobilistico.
E il nostro? Casualmente, l’unico grande player di cui disponiamo è italiano solo quando si tratta di mettere a posto i conti ristrutturando, farsi pagare la cassa integrazione o godere del regime di rottamazione. Per il resto, è americano (magari ora sperando in un regime di favore dall’eventuale accordo Usa-Cina) oppure olandese o britannico, legalmente e fiscalmente parlando. Insomma, polarizzazione forzata ed emergenziale. Che, però, vedrà non solo l’Italia esclusa giocoforza da questa dinamica strutturale per i nuovi equilibri europei, ma, nei fatti, anche rivale (se non apertamente nemica), vista la sua predisposizione all’accoglimento pedissequo dei desiderata americani.
Non a caso, il ministro Salvini ha già annunciato la preparazione di un viaggio negli Usa proprio prima delle elezioni di fine maggio. Un patto chiaramente anti-sovranista, quello di Aquisgrana, che dovrebbe anche vedere la Francia operare lobbying a favore di un seggio permanente per la Germania al Consiglio di sicurezza dell’Onu, dopo quello non permanente ottenuto lo scorso giugno. Non a caso, il leader di Alternative fur Deutschland, Alexander Gauland, ha già bollato il progetto come «un’erosione della nostra sovranità nazionale», mentre Marine Le Pen lo ha definito «una scelta che decreta uno sbilanciamento a favore della Germania».
E con i Gilet gialli tornati a far baccano e il Governo francese che comincia ad avanzare velate accuse di eterodirezione del movimento proprio dall’Italia, il quadro si fa davvero interessante. E pericoloso. Ma si sa, qui la notizia sarà un’altra, sarà l’arresto di Cesare Battisti e la vittoria straordinaria del Capitano. Ci accorgeremo delle conseguenze, come al solito, quando sarà troppo tardi. Come per la famosa ripresa economica sostenuta, sostenibile e sincronizzata. Ve la ricordate?