Attenzione, il mondo si è accorto che in Cina c’è un problemino di crescita. E, quindi, di bolla creditizia. Evviva, meglio tardi che mai! Addirittura se ne sono accorti al Sole24Ore, sintomo che quanto sta accadendo all’economia del Dragone è ben peggiore di un raffreddore stagionale, essendo il quotidiano di Confindustria meglio noto nell’ambiente finanziario come il Day after journal, ovvero quelli che ci arrivano quando ormai la notizia è dipinta sui muri e ne discute con le amiche, bevendo il caffè, anche mia madre 82enne. Insomma, siamo nei guai. Addirittura, per rafforzare il suo allarme, il Sole cita un un intervento sul quotidiano di Hong Kong, il South China Morning Post, dell’analista economico David Brown (ceo della New View Economics), nel quale sostiene che «forze negative stanno prendendo slancio» e che «la Cina potrebbe molto presto andare incontro a un collasso dell’espansione economica, con un Pil che, nello scenario peggiore, scenderebbe a un modestissimo +2% annualizzato». Insomma, il mitologico hard landing, quello che tutti gli analisti con conti in banca a parecchi zeri come Brown davano per fantascientifico e impossibile non più tardi dello scorso anno. Siamo davvero in una botte di ferro, se le previsioni sull’andamento dell’economia ce le fornisce questa gente.
La questione è un po’ più seria e complicata, ancorché faccia riferimento all’unico, enorme problema del sistema finanziario globale: la scarsezza crescente di liquidità a causa della fine dei cicli espansivi delle Banche centrali. Certo, c’è il guaio dell’indebitamento record, sia corporate che pubblico, ma attenzione, perché la pressione negativa di quest’ultimo è figlia legittima della prima dinamica. Ci si è indebitati come pazzi, alla faccia dell’azzardo morale, perché si sapeva che le Banche centrali avrebbero continuato ad alluvionare il mercato con liquidità a costo zero. Ora, si fanno i capricci perché non smettano. Il problema è che il capriccio in questione equivale a spargere benzina sul tappeto di casa e poi giocherellare con l’accendino di papà, minacciando di farlo cascare a terra per vedere l’effetto che fa. Ecco perché la Fed si è fermata, de facto: si rischiava di dover chiamare i pompieri. E in fretta.
Ciò che ci interessa della Cina, in realtà, è questo grafico, dal quale emerge – attraverso il proxy del dato relativo alle dinamiche commerciali di import ed export – un dato che potrebbe davvero essere game changer nella disputa con gli Usa su chi tornerà a stampare prima: sono ricominciate – e in grande stile – le fughe di capitali dalla Cina, dovute all’indebolimento dello yuan deciso dalla Pboc. E cosa ce lo fa capire? La dinamiche in netto aumento delle importazioni cinesi proprio da Hong Kong, la linea verde e in netto trend di crescita rispetto alla correlazione con il deprezzamento dello yuan, linea rossa nel grafico. La stessa dinamica che la Cina ha conosciuto nel 2015-2016, periodo di massima incisività del fenomeno degli outflows di capitale verso lidi più sicuri, vedi in tal senso le bolle immobiliari gonfiatesi proprio in quel periodo in città statunitensi come New York o San Francisco, ma anche a Vancouver e Londra, dove facoltosi cittadini con gli occhi a mandorla compravano case e uffici con il badile.
Ma come si sposa la volontà dei cinesi ricchi di esportare capitale per evitarne il deprezzamento con le importazioni da Hong Kong, salite del 106% a dicembre su base annua rispetto al -7,6% dell’import totale cinese? Semplice, si chiama over-invoicing ed è una pratica fraudolenta diffusissima. I cinesi della Mainland pagano in maniera superiore al valore reale per merci o servizi offerti da un intermediario di Hong Kong in base a un pre-accordo, il quale prevede che l’esportatore con base fuori dalla Cina continentale permetta – a fronte di una commissione – all’importatore di aver eccesso al suo contante extra, ovviamente al di fuori dei firewalls imposti dal governo di Pechino per prevenire appunto le fughe di capitali e il riciclaggio.
Piccola notazione a margine: l’ultima volta che si sviluppò in grande stile una dinamica simile, Bitcoin passò da 200 a 20mila dollari. Quindi, se nel medio termine si registreranno strani balzi al rialzo della criptovaluta, non pensate a sommovimenti tellurici. È pura speculazione, non a caso proprio l’altro giorno, intervistato dal Daily Telegraph, l’economista della Academy of National Economy and Public Administration, prestigiosa istituzione accademica pubblica di Mosca, Vladislav Ginko, ha dichiarato che la Russia, per minimizzare l’impatto delle sanzioni statunitensi, è pronta a diversificare ulteriormente le sue riserve in dollari con criptovalute per un controvalore fino a 10 miliardi. Proprio ora, casualmente. Insomma, attenzione a certe dinamiche valutarie, perché potrebbero essere il canarino nella miniera dell’esaurimento della possibilità di Pechino di andare avanti senza ulteriore stimolo dell’economia. Ma stimolo serio, non le iniezioni mirate di liquidità o i ciclici tagli dei requisiti di riserva delle banche. Qe vero, per capirci.
Insomma, la forza relativa dello yuan altro non è che la volontà delle Pboc di mascherare la realtà, ovvero una continua fuga di capitali dovuta al deprezzamento della valuta. Anni e anni di magheggi, ora presentano il conto al colossale schema Ponzi statale cinese. Era inevitabile, peccato che questo rischi di avere conseguenze per tutto il mondo, interconnessi e finanziarizzati come siano.
E veniamo alla seconda criticità, sempre legata al tema della liquidità e delle Banche centrali. Come mostrano questi grafici, siamo al redde rationem, miglior spiegazione plastica della scelta di Jerome Powell di trasformarsi in colomba non esiste. La fornitura a livello globale di massa monetaria M1 oggi sta già flirtando con i minimi di metà 2008 e, paradossalmente, proprio la Cina con le sue misure di stimolo spot è l’unico Paese che ancora regge minimamente questo impatto: gli altri mercati, già stanno pagando pesantemente dazio, come confermato dagli schianti azionari da ottobre in poi.
Per Barnaby Martin di Bank of America, non ci sono dubbi: il livello di alto indebitamento mondiale in cui viviamo costringerà, al netto di questa dinamica monetaria, tutte le altre economie a dare vita – chi prima chi poi, chi più che meno – a nuove misure di stimolo straordinario. E signori, partendo da questa realtà e utilizzando la crescita della produzione industriale globale come proxy dell’espansione economica futura, non ci sono molte discussioni da intavolare: il mondo è già oggi in recessione. Ufficiale e conclamata. Non a caso, l’indicatore di dati economici negativi a livello mondiale già oggi è nella stringa consecutiva più lunga dalla grande crisi finanziaria.
Ed eccoci al secondo grafico, il quale ci mostra plasticamente come ogni volta che la massa monetaria M1 è entrata in territorio negativo – a causa del rallentamento della fornitura da parte delle Banche centrali o, addirittura, del loro drenaggio di liquidità dal mercato, come il caso della Fed con le sue redemptions per normalizzare il bilancio post-Qe – si è palesata una crisi finanziaria: mercati emergenti nel 2015, debito sovrano del 2011, bolla tech del 2000 o subprime del 2008, poco cambia. La realtà è quella, statistiche storiche alla mano. E come vedete nel titolo del grafico, al tonfo verso i minimi, manca poco: 31 marzo 2019. Formalmente, due giorni dopo il Brexit: i mercati non saranno affatto nervosi, se per caso Londra deciderà davvero di dire addio all’Ue (mentre scrivo a Westminster ancora si deve votare) e, soprattutto, se nel frattempo le Banche centrali non avranno almeno annunciato nuove misure di stimolo.
Già, cari lettori, perché il secondo grafico parla chiaro: il problema non è che la Fed fermi i rialzi dei tassi e nemmeno le redemptions, qui (forse) si esce dal tunnel mortale solo se la Federal Reserve e la Pboc ricominceranno attivamente a iniettare liquidità nel sistema globale. Altrimenti, quanto elencato qui sopra vi sarà utile come compendio descrittivo sulla genesi della crisi del 2019. Destinata fin da ora, a livello teorico, a scalzare per importanza dai libri di storia economica quella del 2008. Come vedete, la questione è un po’ più complessa – e seria, strutturalmente e a livello sistemico – del mero rallentamento economico cinese.