Chissà che il quadro ora sia più nitido. Più disvelato, per così dire. La reazione entusiasta della sterlina al voto con cui Westminster ha rispedito pesantemente al mittente il pasticcio travestito da accordo che Theresa May ha raggiunto con l’Ue per il Brexit, non può certo essere derubricata a speculazione. In questo momento, chi vuole salire in giostra a breve, far soldi e scappare, è altrove. Oltreoceano, per capirci, basti guardare la resurrezione degna di Lazzaro del titolo Netflix (andate a vedere il livello di acquisti degli insiders dei titoli che maggiormente hanno patito da ottobre a oggi e capirete come chi di dovere già sconti una Fed ben più colomba nell’immediato futuro di quanto non sembri adesso). Il Brexit, il suo intero impianto, la scelta stessa di una leader apparentemente forte, ma nei fatti profondamente ottusa come Theresa May per guidare il post-Cameron (l’uomo che proprio su quel quesito si giocò la carriera politica, di fatto appena iniziata) e il negoziato con l’Ue (affidato, da parte continentale, a un diplomatico di lungo corso e chiara lungimiranza come Michel Barnier, il quale si è infatti infilato nel taschino la premier britannica, senza nemmeno una goccia di sudore o sgualcire la cravatta) sono tutti tasselli di un unico mosaico: mostrare alla gente arrabbiata, quale sia l’epilogo di certe scelte di pancia.
E, piano piano, il tutto sta emergendo. Perché quando il capitan Fracassa di quella pantomima, leggi Nigel Farage, arriva ad ammettere che ormai un secondo referendum potrebbe essere necessario e quando 100 deputati laburisti, in netta contrapposizione con il loro leader, addirittura vorrebbero legare direttamente quell’ipotesi alla mozione di sfiducia contro il governo, significa che quando vi dicevo che l’ingresso in campo di Tony Blair a favore di quell’epilogo era risolutivo e chiarificante delle dinamiche in atto, avevo ragione. Ve lo avevo detto, il Brexit non si farà. E se si farà, certamente non sic et simpliciter, sarà solo a questioni ben più importanti risolte: della volontà popolare britannica non importa nulla a nessuno. Politici britannici in testa. I quali, infatti, di fronte all’ipotesi di andarsene con qualche paletto da dover digerire, hanno reso noto e palese il loro “no”: se io odio tanto l’Ue, se la ritengo così tanto la radice di ogni male, me ne vado. E poi lascio che siano le contraddizioni in seno all’accordo – vedi i confini nordirlandesi – a porsi da sole e a obbligare tutti a sedersi di nuovo attorno al tavolo: nel frattempo, però, esco dalla gabbia e non tratto più in stato di “cattività”. Ma da pari. Soprattutto ora che l’eurozona è quantomai debole, spaccata e percorsa in due Stati fondatori da tensioni populiste enormi. In Italia, addirittura, espressione dei due partiti che formano la coalizione di governo.
Scusate, pensateci un attimo: quando mai, anche solo per la legge dei grandi numeri, l’ipotesi del Brexit troverà condizioni politiche generali così favorevoli? Governo gialloverde in Italia e gilet gialli che assediano formalmente Emmanuel Macron in Francia. E non basta, perché per quanto il dato di dicembre abbia evitato l’ingresso formale e ufficiale in recessione, la Germania è clamorosamente in fase di rallentamento economico e con una leader, Angela Merkel, ormai silente e quasi fuori da giochi che contano. Se non ora, quando? Ma non basta ancora. Vi pare una coincidenza che proprio nel giorno del voto make or break di Westminster, Jean-Claude Juncker dia vita a un clamoroso mea culpa sulla Grecia e sull’austerity eccessiva imposta ad Atene dopo la crisi del debito sovrano del 2011? Un po’ sospetto, a poco più di quattro mesi dalle elezioni europee. Di fatto, una bella tanica di benzina regalata alle forze populiste/sovraniste. O forse Juncker spera nell’effetto simpatia legato alla pur tardiva presa d’atto dell’errore compiuto?
Non prendiamoci in giro, per favore. Per una ragione molto semplice. Ovvero, la nomea di beone che accompagna il numero uno della Commissione Ue, a volte, è fuorviante. Perché l’uomo è molto meno stupido di come lo si dipinga comunemente. E, infatti, quasi nessuno – a parte il senatore Mario Monti, non a caso – ha notato la parte più politicamente importante del suo discorso all’Europarlamento. Quando, dopo aver definito avventata (“poco riflettuta”, precisamente) la politica di austerity attuata in Grecia, ha chiesto scusa a nome dell’istituzione che presiede «per aver dato troppa importanza alle valutazioni del Fondo monetario internazionale». Come dire, a volere la Grecia letteralmente in ginocchio è stata Washington, non Bruxelles. Differenza non da poco, se proferita pubblicamente dal capo della Commissione Ue, non vi pare?
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è il tweet postato a tempo di record da Donald Tusk dopo il voto di Westminster, quando ancora si stavano ricontando i voti per essere certi dello scarto subito dalla May: di fatto, un invito a trovare il coraggio di ammettere l’errore e fare l’unica cosa giusta. Cioè, rinunciare del tutto al Brexit, tornare all’ovile e restare nell’Ue. Se accadesse, prima del voto alle europee, avrebbe un impatto devastante, altro che gilet gialli o richieste demagogiche di chiusura delle sede di Strasburgo dei due Blues Brothers all’amatriciana, in missione per conto della Casaleggio Associati.
Succederà? Non lo so, ma l’importante è che passi nell’opinione pubblica europea, britannica in testa, quel messaggio: tornare indietro, per adesso, è ancora possibile. Una volta imboccata la strada del No deal, visto che Bruxelles pare intenzionata a non riaprire i negoziati, forte com’è della batosta subita dalla May, non sarà invece più una strada praticabile. Fare paura, inviare segnali.
E non sottovalutiamo un altro particolare. Nel giorno e nella sede del patetico mea culpa di Juncker sulla Grecia, ovvero l’Europarlamento che celebrava i vent’anni dell’euro, ha parlato anche Mario Draghi, il quale ha sottolineato con l’evidenziatore del suo tono di voce la necessità di ulteriori stimoli all’economia, la quale si è fortemente indebolita nell’eurozona in pochi mesi e a causa di un combinato negativo a livello globale. Et voilà, stiamo preparando la strada a una bella asta Ltro di finanziamento a lungo termine per le banche, come vi dico dall’inizio. Casualmente, immagino, a ridosso delle europee. Diciamo fine marzo, inizio aprile. Ma occorre riempire i telegiornali e i giornali di allarmi al riguardo, altrimenti suonerebbe ancora un po’ troppo come smentita clamorosa di quanto si è sostenuto per trimestri: scusate, a cosa pensate che serva l’improvvido ma temporalmente perfetto intervento della Bce sui non-performing loans di Mps (e, di fatto, sullo stock di tutte le banche), se non a creare le condizioni per giustificare e anzi rendere auspicabili/necessarie quelle aste di rifinanziamento e, quindi, l’ennesimo, salvifico intervento della Banca centrale europea?
Credete che in Italia sia in atto un’emergenza NplLoggi, più che sei o tre mesi fa, visto che oltretutto le nuove raccomandazioni si riverberano su un orizzonte temporale di sette anni? No, affatto. Però c’è la coda di paglia strutturale delle nostre banche che giustifica i tonfi in Borsa di lunedì e martedì e il peccato originale del rapporto incestuoso fra sistema creditizio e Tesoro, a livello di detenzione bancaria di titoli di Stato, il famigerato doom loop. E c’è la necessità, inoltre, di contrattaccare all’offensiva sovranista/populista di governo. E se il ministro Salvini pensa di fare la guerra a Mario Draghi, come ha fatto intendere con il suo attacco alla Bce di martedì, ha scelto la strada migliore per suicidarsi politicamente. Con o senza giubbotti della polizia. Potrebbe catturare tutti i latitanti degli anni di piombo e anche i loro parenti fino al terzo grado, ma alla prima banca che si trovasse costretta a un aumento di capitale d’emergenza, a fronte della minaccia di non essere in grado di rimborsare un’obbligazione o costretta a razionare i contanti nei bancomat, la sua sciarada da ispettore Callaghan sarebbe finita. Per sempre. E lui, non fosse altro perché ha il sottosegretario Giorgetti che lo riporta sulla Terra ogni tanto, lo sa.
Ieri, non a caso, le Borse europee erano tutte positive e anche Londra di certo all’apertura delle contrattazioni non sembrava Wall Street il primo giorno di trading dopo l’11 settembre: chissà come mai, avete provato a chiedervelo? Cosa contiene di positivo quello schiaffo in faccia alla May di martedì sera, quale messaggio in codice stanno inviando le élites alle opinioni pubbliche? E, soprattutto, cos’altro ci aspetta? Magari, per Piazza Affari, il fatto che il caos montante abbia fatto pronunciare quelle parole a Mario Draghi, lo stesso che la volpe politica (o il navigato doppiogiochista, fate voi) del ministro Salvini addita come nemico giurato dell’Italia.
Temo – e vi assicuro che non servono facoltà divinatorie per pensarlo – che saremo noi e la Francia, adesso, l’epicentro della campagna elettorale parallela e sotterranea dell’establishment europeo in vista di fine maggio. Quello partito martedì sera da Westminster e che si perpetuerà per le prossime settimane, è un messaggio tanto chiaro, quanto potentissimo: lasciare l’Ue non è solo complicato proceduralmente (esattamente come espellere i clandestini, altro che i 600mila all’anno della campagna elettorale), ma anche pericoloso. E, a conti fatti, non conveniente. Un messaggio che vale per tutti, infiocchettato con il mea culpa patetico di Juncker. Ma che sottende un altro messaggio, ancora più importante e indirizzato ai sovranisti di tutte le nazioni, italiani in testa però: la Gran Bretagna avrà anche la sua sterlina gestibile e svalutabile, ma ora che arriva la recessione, chi ha in tasca l’odiato e filo-tedesco euro potrà contare su Superman Draghi in sua difesa, un’altra volta. E Superman, non a caso, l’altro giorno ha parlato chiaramente. Seppur con i toni blandi che si addicono a un banchiere centrale. Il cui compito principale, ricordate sempre, è mentire, quando la situazione si fa davvero pericolosa. E la sua formale chiusura del Qe di dicembre è stata la menzogna del secolo. Necessaria, però.