Il Consiglio dei ministri ha approvato il decretone con le due misure simbolo del governo giallo-verde. Reddito di cittadinanza e quota 100 per le pensioni sono così diventate legge, due giorni dopo la pubblicazione di un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere, in cui si sottolinea quanto fosse “indispensabile che la parte migliore della società meridionale, quella che vuole restare ancorata alla modernità, si faccia sentire con voce forte e chiara” per non cedere alle nuove forme di decrescita e di assistenzialismo. “E’ vero – commenta Amedeo Lepore, per anni assessore alle Attività produttive della Regione Campania e oggi professore di Storia economica all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” -, il Sud non può tonare alle vecchie politiche. Il Sud è stato in grado di esprimere un contributo al progresso del Paese quando non è stato il partito dei no, sostenendo politiche nazionali ed europee. Rifugiarsi in un separatismo speculare a quello delle Regioni del Nord che chiedono un’autonomia differenziata è una visione miope e perdente. Il Mezzogiorno deve invece scegliere la strada dell’innovazione, degli investimenti, dell’occupazione, dell’uguaglianza e della sussidiarietà. I tentativi, quando sono stati fatti, come con i contratti di sviluppo, il credito di imposta o Industria 4.0, hanno prodotto politiche positive con risposte virtuose. Bisogna tornare a riflettere su questi temi, altrimenti si perde tempo e si fanno danni a tutto il Paese”.
A sette mesi dall’insediamento del governo giallo-verde e all’indomani del varo delle due misure bandiera – reddito di cittadinanza e quota 100 per le pensioni – Lega e M5s sono all’altezza di questa sfida?
La stessa definizione di Contratto di governo ammette una differenza profonda di partenza tra le due forze politiche al governo e il tentativo di tenere insieme istanze differenti non credo possa trovare nel rapporto tra reddito di cittadinanza e regionalismo differenziato il punto di saldatura. Se fosse così, sarebbe un danno per l’intero Paese. Così emergerebbe una faccia reale del sovranismo italiano, che puntando sulla differenza tra le regioni crea un problema serio anche nella redistribuzione. James Buchanan, il premio Nobel che ha coniato il termine di residuo fiscale, intendeva rendere possibile negli anni 50 una politica redistributiva dalle regioni più forti alle più deboli, l’esatto contrario di quello che potrebbe essere realizzato. E credo che questo dell’autonomia differenziata sia un tema da ripensare con maggior calma.
Perché?
Il rischio insito in questa saldatura, tra presupposti interessi del Sud e questa visione differenziata del Paese, determinerebbe una crisi ancora più seria e la residualità dell’Italia sullo scenario internazionale. Non credo che le singole regioni, da sole, possano raggiungere alcun obiettivo.
La risposta in cosa dovrebbe consistere, allora?
In un cambiamento delle politiche economiche.
E’ in parte quello che ha chiesto Panebianco, quando invita le parti virtuose di Nord e Sud a far sentire la loro voce per dire no a decrescita e neoassistenzialismo. E’ d’accordo?
Sono d’accordo con l’esigenza che emerga sempre più un volto produttivo e innovativo nel nostro Paese. Un’alleanza tra Nord e Sud è fondamentale, perché chi predica la divisione non fa altro che indebolire tutto il Paese. Ma non concordo con Panebianco sul fatto che non ci siano segnali dal Sud: infatti si possono ritrovare in scelte, in iniziative di imprese e lavoratori e in alcune politiche attuate nel Mezzogiorno tra il 2015 e il 2017. Erano segnali di ripresa che si devono consolidare.
Per farlo che cosa occorrerebbe?
E’ necessario unire, all’obiettivo degli investimenti in produttività e occupazione, altri due termini chiave: innovazione e uguaglianza.
Partiamo dall’innovazione.
Dopo la crisi pesantissima che il Mezzogiorno ha vissuto dal 2007 al 2014, la fase più acuta della crisi economica, e dopo le notizie non confortanti di questi ultimi mesi che rischiano di condurci verso una nuova fase di recessione, bisogna puntare, con le risorse disponibili, a creare più investimenti per far crescere l’industria, il motore che sembra in rallentamento in tutto il Paese, e non solo al Sud. Credo sia l’obiettivo principale per ritornare a crescere. Gli investimenti portano buona occupazione, stabile e non assistita, e portano un innalzamento della produttività, elemento essenziale per modernizzare tutto l’apparato produttivo del Paese.
Un tentativo, anche se in ritardo rispetto ad altri Paesi, Germania in testa, lo si è fatto con Industria 4.0. Vale la pena rilanciarlo?
Sì, perché noi abbiamo bisogno come il pane di una nuova industria, che si basi sulle nuove tecnologie e sull’intelligenza artificiale. L’innovazione è un ingrediente fondamentale: ci riporta sulla cresta dell’onda, ci mette nelle condizioni di affrontare più facilmente le difficoltà, crea occupazione più qualificata.
E l’uguaglianza?
In questi anni abbiamo avuto una risposta sbagliata, neoassistenzialistica, ma il tema non si risolve con nuove richieste di protezione da parte del Mezzogiorno. La si affronta dotando di infrastrutture, di investimenti e di nuove capacità produttive le aree più arretrare del Paese.
Ma il problema delle fasce di popolazione più povere non può essere certo ignorato dopo dieci anni di crisi pesantissima, non crede?
Le fasce di povertà, come ci hanno insegnato gli economisti indiani, da Yunus ad Amartya Sen, non si aiutano con le vecchie politiche, ma proponendo ai poveri una prospettiva di emancipazione, rendendoli protagonisti del proprio destino. Solo così si può affrontare oggi un problema serissimo e drammatico. Non basta lesinare semplicemente risorse economiche. Le politiche sociali sono fondamentali, ma in assenza di un obiettivo produttivo si ripiegano su se stesse.
Chi può raccogliere questa sfida per rilanciare investimenti, innovazione e uguaglianza?
Per riprendere un cammino virtuoso, evitando una nuova pesante crisi, la risposta deve essere europea. Se l’Italia si presenta con proposte rabberciate, senza dimenticare i nodi drammatici della Brexit e delle tensioni che rendono l’Europa più debole, credo che non potrà contribuire a risolvere questioni centrali.
Nel quadro europeo come deve presentarsi l’Italia?
Non certo con una combinazione di neoassistenzialismo e interventi a pioggia. Lo Stato deve svolgere un compito non solo di erogatore di servizi, ma di promotore di politiche economiche, industriali. E’ un punto che connette gli interessi del Nord e del Sud. I soggetti che possono farlo vanno trovati nel Paese, nella nostra società, negli operatori economici che rappresentano ancora la spina dorsale.
Servono nuove politiche industriali?
Le risorse per gli investimenti sono poche e dopo una crisi la necessità fondamentale è concentrare i grandi investimenti per avere un big push, una notevole spinta in avanti. In un momento in cui abbiamo la necessità di crescere non di pochissimi decimali, ma di recuperare gap profondi, servono dunque investimenti in infrastrutture e per l’industria. Non si tratta di premiare le grandi imprese, sarebbe una visione miope, ma di partire dalla consapevolezza che solo gli interventi su grande scala sbloccano il sistema e possono essere accompagnati da una politica attenta alle filiere produttive.
Lo si è già fatto? E con quali risultati?
Quando lo si è fatto, in alcuni casi, negli anni scorsi, si è realizzata una grande interdipendenza tra le imprese del Sud e quelle del Nord, soprattutto nelle filiere, lunghe e larghe, delle cosiddette “4A” – i settori alimentare, abbigliamento, arredo e automazione -, più il farmaceutico: quelle imprese sono cresciute più rapidamente delle altre e si sono innestate nelle catene globali del valore in posizioni non residuali. E’ un punto strategico che va assolutamente recuperato, anche se mi sembra non ce ne sia la consapevolezza. Bisogna promuovere grandi imprese e grandi filiere, così possiamo tornare ad avviare un circolo virtuoso e a rimetterci in moto anche in una situazione molto complicata e difficile.
Altrimenti quale rischio può correre il Paese?
Quando si cementò l’alleanza tra il Nord industriale isolazionista e il Sud latifondista parassitario, quell’esperienza ha condannato tutto il Paese, non solo il Sud, al regresso a al ritardo nello sviluppo industriale. Quell’alleanza cercò di mettere insieme obiettivi inconciliabili: l’industrializzazione, infatti, non va di pari passo con la rendita parassitaria, sono due cose antinomiche. Oggi bisogna evitare che si ripeta lo stesso errore, oltre un secolo dopo. La modernizzazione è l’obiettivo principale del nostro Paese, perciò io auspico un’alleanza più ampia di quella paventata da Panebianco: le parti vive dell’impresa, cioè imprenditori e lavoratori, devono essere in grado di proporre un’alleanza con il mondo della conoscenza e dell’innovazione per creare un cemento forte. Dobbiamo tornare allo spirito di Verona.
Intende dire alle assise di Confindustria di un anno fa circa?
Là si ritrovano tutti questi temi, che sembrano piovere da una realtà diversa da quella che stiamo oggi respirando. Si parla di investimenti per 250 miliardi in 5 anni, di crescita del Pil reale e dell’occupazione. A Verona c’erano molte imprese del Mezzogiorno e le intese contrattuali che ne sono nate, tra imprese e sindacati, indicano la strada per avere un Paese produttivo. A tutto questo, poi, aggiungerei un ultimo tassello.
Quale?
Il ruolo delle forze culturali e associative che si stanno muovendo per dare risposte laddove non arrivano le istituzioni. La sussidiarietà è un altro aspetto che si connette fortemente a quelli degli investimenti, dell’innovazione, dell’occupazione e dell’uguaglianza, perché aiutano a rimettere in moto corpi intermedi in grado di costituire la base di questa alleanza nuova che serve al Paese. Se si inizia a ricostruire un percorso di corpi intermedi e di forze che si uniscono senza differenze regionali, ma badando all’interesse e al bene comune, e credo che ce ne siano in tutto il Paese, tutto ciò potrà diventare un riferimento saldo e uno stimolo alla politica per poter dare risposte adeguate.
(Marco Biscella)