Poco meno di due mesi fa, il giorno 22 novembre, è andata in onda la grande paura del Bot People. L’offerta numero 14 del Btp Italia si chiudeva, nonostante condizioni di offerta molto generose, con il crollo delle sottoscrizioni: le vendite al pubblico si fermarono a 864 milioni di euro, solo in parte compensate dagli istituzionali (1,3 miliardi di euro). Una doccia fredda che fece passare notti insonni ai responsabili del debito pubblico, consapevoli che la risposta negativa del Bot people era senz’altro legata alle tensioni politiche che avevano fatto salire lo spread attorno ai 320 punti base, ma ancor di più alla delusione dei piccoli risparmiatori che dopo aver sottoscritto circa la metà dei 140 miliardi di euro raccolti nelle tredici precedenti emissioni erano rimasti con il cerino in mano in occasione dell’emissione di maggio che in soli sei mesi aveva perso oltre il 12% del valore.
Insomma, un disastro a poco più di un mese dalla fine del Quantitative easing, ma che si è rivelata una ghiotta occasione per chi ha avuto il coraggio di entrare sul mercato nel momento di massima tensione. Da allora, infatti, i rendimenti dei titoli italiani, pur tra alti e bassi, hanno però guadagnato posizioni: il rendimento, al 3,44% il 22 novembre scorso, è sceso attorno al 2,76%, lo spread è calato a 257 punti. Insomma, chi si è fidato dello stellone italico ha fatto un buon affare, spuntando rendimenti a doppia cifra.
Che cos’è cambiato rispetto a quei giorni? Semplice. L’Italia ha saputo evitare la procedura di infrazione da parte della Commissione europea. In parallelo, in attesa delle elezioni di giugno, il fronte sovranista ha accantonato, se non eliminato, il proposito di abbandonare l’euro, la causa principale, probabilmente, della sconfitta di Marine Le Pen. A favorire la ripresa, poi, hanno contribuito i fattori esterni. La crisi inglese, che si avvia a nuove, drammatiche tappe già nelle prossime settimane, favorisce la tenuta dell’area della moneta unica, assieme alla prospettiva di nuove misure a sostegno di banche e debito pubblico rese necessarie dalla congiuntura negativa.
Nel frattempo si è stemperata la pressione sui tassi Usa. Il 3 ottobre il presidente Jerome Powell ha annunciato che la banca centrale aveva in programma di proseguire nel piano di rialzo dei tassi. È iniziata così una stagione di sofferenza dei listini Usa che si è fermata quando la Fed ha iniziato a mandare segnali che la linea sui tassi non era rigida e che ulteriori rialzi ci sarebbero stati solo in caso di ripresa dell’inflazione al consumo, non di quella salariale. Confortato dai dati rassicuranti sull’inflazione e dalla ripresa del negoziato tra Cina e Stati Uniti sulle politiche commerciali, il mercato ha iniziato a riprendersi.
Insomma, in un certo senso, la situazione si è tranquillizzata. La “ribellione” sovranista italiana, così com’era stata percepita nel momento di maggior conflitto (solo verbale, per fortuna) è rientrata entro argini più gestibili e tradizionali (vedi Carige). Le elezioni europee perdono così quella carica eversiva rispetto agli equilibri dell’Ue che, non si sa con quanto realismo, è stata agitata dal fronte giallo-verde.
Lo stesso vale per il conflitto sui dazi, che pare avviato a uno sbocco positivo, anche perché le perdite sono state pesanti non solo per Pechino. Non resta che la Brexit, crisi in un certo senso locale, ma gravida di conseguenze per il Vecchio Continente. Ma il leader laburista Jeremy Corbin ha negato il sostegno a qualsiasi ipotesi di hard Brexit, disinnescando così i possibili danni più devastanti.
Il mondo, dunque, sembra meno pericoloso di quanto non fosse a fine 2018. Ma i problemi sono solo rinviati. I tassi bassi segnalano l’impotenza ad accelerare la corsa, premiare ricerca e investimenti, riattivare un ciclo di crescita convincente. La leva monetaria serve a tenere in piedi imprese pericolanti, se non decotte. Intanto la mole di debiti, sia quelli degli Stati che delle imprese (e delle famiglie) continuano a crescere, dieci anni dopo il picco della crisi dei subprime. I margini per una politica fiscale espansiva nei mercati sviluppati sono sempre più limitati. Facile prevedere, sintetizza un report del Credit Suisse, che nel caso di una recessione ci potrà essere un’accelerazione della crescita dei populismi e delle misure anti-corporate. Non illudiamoci: la crisi sarà ancora lunga e pericolosa.