Immagino che tutti voi sappiate cosa siano i marshmallows, non fosse altro perché chiunque abbia visto un film americano si è imbattuto in un protagonista che li abbrustoliva sul fuoco di un falò in campeggio o del camino di un cottage. Sono appunto quelle irresistibili caramelle gommose bianco-rosa che vengono rese croccanti in superficie dal calore diretto e che rappresentano una tentazione irresistibile, sia per i bambini che per i più grandi. E proprio perché difficilmente si riesce a ignorare il loro richiamo glicemico, sul finire degli anni Sessanta i ricercatori della prestigiosa Stanford University in California si sono inventati il cosiddetto Marshmallow test, una simulazione comportamentale basata appunto sulla capacità di resistere all’istinto di mangiare subito quel dolce, trovandoselo di fronte. Nemmeno a dirlo, le implicazioni di quel test sono state poi usate a livello empirico per molti ambiti sociali e, non di meno, per classificare, tracciare e prevedere il comportamento degli investitori di mercato. Soprattutto retail, ovvero i non professionisti.



Il test è semplice, di fatto: si valuta la capacità di attesa di bambini fra i 3 e i 5 anni nell’addentare il marshmallow che hanno davanti, utilizzando come sprone il tal senso la logica del premio: se saprai aspettare almeno 10-15 minuti prima di mangiarlo, ne avrei un altro come ricompensa. Ovviamente, il tutto senza un adulto nella stanza a controllare. Nella versione originale del test, i risultati servivano come punto di partenza per poi valutare lo svilupparsi della vita accademica, lavorativa e sociale del bambino, tanto da capire se l’atteggiamento tenuto verso quella tentazione e la sua capacità di resistergli poteva essere visto come un evento anticipatore, un imprinting genetico-caratteriale, dei suoi futuri successi o fallimenti. Nemmeno a dirlo, i bambini che sapevano resistere per 15 o più minuti, risultavano avere carriere universitarie e lavorative migliori degli altri. All’inizio si pensava che il discrimine fosse nel cosiddetto it factor, ovvero un fattore che divideva in due i bambini fra chi era in grado di attendere e chi no, ma uno sviluppo della metodologia ha portato a concludere che l’ambiente da cui proveniva e in cui stava crescendo il bambino aveva un’influenza sostanziale nel suo atteggiamento verso il test (e la vita).



Perché vi dico questo? Semplice, per spiegarvi cosa sta accadendo sui mercati. E, più importante, nelle nostre società di capitalismo terminale e dopato. Si è voluto infatti utilizzare il principio del Marshmallow test relativamente all’andamento dei mercati, ovvero al grado temporale di fiducia che gli investitori retail offrono ai titoli azionari nelle diverse fasi del ciclo: ovvero, di fronte a rialzi, ma anche ai ribassi. Lo si è fatto attraverso il tracciamento delle parole chiave Dow Jones e Recession sulla versione statunitense di Google, di fatto un proxy diretto del livello di preoccupazione degli investitori retail rispetto allo stato di salute delle valutazioni equities americane. Si è scelto Dow Jones per il semplice fatto che, statisticamente, il volume della sua ricerca è superiore a quello di altri termini correlati con il mercato azionario di Oltreoceano, come ad esempio S&P, stock market o S&P 500.



E a cos’ha portato questa ricerca? Tre considerazioni, innanzitutto. Primo, la tempesta di volatilità scatenatasi nel febbraio del 2018 ha sì portato a una nuova stagione di rialzi, culminata nel picco del settembre 2018, ma gli investitori non professionisti non si sono affatto dimenticati quello shock. Anzi, le loro ricerche su Google al riguardo sono proseguite per tutto il periodo intercorso. Secondo, proprio i volumi di ricerca del termine Dow Jones sono stati decisamente più alti fra marzo e ottobre 2018, rispetto allo stesso periodo del 2017. E non di poco: un aumento fra il 100% e il 150%. Subito dopo l’inizio dei cali generalizzati, poi, su base annua l’aumento delle ricerche ha superato il 200%. Terzo e più importante, la volatilità innescatasi sui mercati nel febbraio 2018 è quella che ha compiuto il vero danno nella fiducia degli investitori, relativamente al clima generale di mercato, al sentiment, un qualcosa confermato dell’aumento dei loro controlli rispetto al livello dei prezzi rispetto al 2017. Di fatto, quanto accaduto da ottobre dello scorso anno fino al rally natalizio, innescato dalla conversione a colomba della Fed e al diluvio di rumors ad hoc su un accordo fra Usa e Cina sul commercio, ha dato ragione a quei timori anticipatori degli investitori retail.

C’è poi il termine Recession, perché anche l’investitore con meno esperienza correla il calo del valore dei titoli azionari con conseguenze pratiche come appunto i licenziamenti di massa da parte delle aziende, il rallentamento dell’economia e quindi la recessione. Tra fine novembre e il periodo immediatamente precedente allo scorso Natale, le ricerche di quel termine su Google Usa sono salite di tre volte rispetto alla media dei 5 anni precedenti. Di più, l’area geografica dove è stato maggiore il volume di ricerche è stata quella di Washington DC, ovvero il cuore dello Stato, la sala macchine del sistema, il centro dell’Impero, ma al quarto posto non è terminato qualche Staterello del Mid-West con economia tendenzialmente agricola-manifatturiera, bensì la California, lo Stato più ricco di tutti.

Di fatto, il Marshmellow test declinato al mercato ci dice due cose. Primo, che il vero collegamento fra Main Street e Wall Street è l’imprevedibilità dell’evento e la volatilità innescata, non tanto il fatto che i titoli siano in correzione (-10%) o in bear market conclamato (-20%). Secondo, qualcosa si è rotto e la distopia collettiva ha preso il sopravvento, come ci mostra questo grafico. L’investitore non professionista, di fatto, ha passato il Marshmallow test. Ha optato per l’attesa come prodromica a un premio e ora detiene a portafoglio il frutto marcio delle manipolazioni da Banca centrale e buybacks da shock fiscale di Wall Street come fonte primaria del suo benessere, del suo patrimonio, dei suoi risparmi. Della sua vita. Nonostante tutte le sue preoccupate (ma dilettantesche) ricerche nel frattempo, mosse unicamente dal buon senso del padre di famiglia.

La propaganda è stata più forte: occorreva mangiarselo quel marshmallow, invece che aspettare il premio. Perché quel premio dovrebbe essere, stante la realtà attuale, il rally provocato dalla Fed che blocca l’aumento dei tassi e dalla distensione, tutta proclami e nulla di scritto, fra Usa e Cina sul commercio. Ma è vero? O, come al solito, il tutto si sostanzierà come al solito con il proverbiale cerino che rimane in mano al parco buoi? Più volte, nei mesi tardo estivi che hanno portato ai crolli autunnali, vi ho mostrato tramite i grafici come la cosiddetta smart money, gli investitori professionali, stesse scappando a gambe levate – ancorché alla chetichella – dal mercato, vendendo i suoi titoli a valutazioni massime ai gonzi che nel frattempo si erano fatti convincere a resistere alla paura o, addirittura, a salire finalmente in giostra. Ora guardate questo altro grafico, il quale ci mostra il primo effetto pratico del mini-rally innescatosi da Natale a oggi, capace di irretire chiunque a parole e attraverso i titoli di giornali e telegiornali, visto che in circa un mese ha garantito un recupero di market cap di 7mila miliardi.

Il mercato, pavlovianemente, è tornato a scontare un nuovo regime di aumento dei tassi da parte della Fed nel 2019, quantomeno un intervento da almeno un quarto di punto. Quanto ci metterà quel sentiment ad auto-avverare e auto-alimentare un nuovo regime di timore per l’aumento del costo del denaro e, quindi, a innescare un nuovo corso ribassista, come quello di ottobre e poi dicembre scorsi? Tanto più che ieri la Cina ha ufficializzato il rallentamento della sua economia a un livello che non si vedeva da 28 anni e che, stranamente, Donald Trump abbia alzato l’asticella del suo giocare al gatto con il topo contro col Congresso, prima sparando la sua proposta a reti unificate, solo per farsela bocciare e garantirsi un alibi rispetto allo shutdown che prosegue e poi lanciando uno dei suoi sibillini avvertimenti via Twitter: “Se volete vedere nuovi crolli azionari, date vita all’impeachment nei miei confronti”.

Gli Usa, intesi come sistema di potere bipartisan, come Impero economico, hanno bisogno dello schianto vero, quello quasi terminale, per poter livellare a livello terminale il campo dei competitor globali, arrivando di fatto all’epilogo da ne resterà soltanto uno con la Cina? E Donald Trump, come di dico dal primo giorno della sua presidenza, è lo strumento scelto e utilizzato dalle élites per ottenere questo risultato, il grande reset schumpeteriano sulla pelle del mitologico 99% del mondo, il processo di ritrovamento della verginità dopo il grande tradimento collettivo del 2008?

Guardate queste due tabelle, le quali danno due diverse risposte alla medesima domanda. Ovvero, cosa causerà la prossima recessione. La prima tabella ci mostra i risultati che si evincono, analizzando i titoli dei media specializzati economico-finanziari, quelli che il cittadino comune non legge e non consulta: la risposta è chiara, stante la grandezza della bolla che la contiene. Ovvero, la Fede i tassi di interesse. La seconda tabella, invece, evidenzia le risposte ottenute attraverso le parole chiave più comunemente digitate in tal senso sui motori di ricerca del web, di fatto l’enciclopedia virtuale della maggioranza delle persone: la risposta è altrettanto chiara, Donald Trump e la guerra tariffaria. Solo dopo, arriva il motore immobile della Fed. Di fatto, nella mente della gente è già passato l’imprinting.

Non solo la domanda già oggi è quando arriverà il prossimo botto e non più se arriverà (quindi, trimestri di retorica da unicorni andati in fumo sono stati metabolizzati, senza rivolte, in un attimo), ma è già pronto, a livello di percezione generale e mediatizzata, il capro espiatorio: il presidente sovranista, l’outsider razzista e autarchico, l’irresponsabile populista. E le tanto odiate élites, a quel punto, potranno tornare a vestire il candido manto del cavaliere bianco che salva il mondo dalla seconda catastrofe in un decennio.

Una cosa è certa, signori miei: nel regno della paura permanente, la gente fa la fila entusiasta per detenere in casa gli strumenti di distruzione di massa di quella paura, titoli azionari – sempre gli stessi, quelli che hanno creato i tonfi perché in bolla – e i Treasuries che garantiscono niente altro che il debito come ragione di vita e il deficit come ossigeno del modello di sviluppo statunitense, l’unica àncora di sopravvivenza. Distopia allo stato puro. Un capolavoro. Ma da far tremare le vene ai polsi, perché equivale a suicidarsi lentamente. Dubito, però, che a Davos da oggi a venerdì si parlerà di questo.