“Con il reddito di cittadinanza, se mai ci sarà la recessione, e io non so se andremo in recessione, noi metteremo in sicurezza le fasce più deboli, non faremo come gli altri”. Lo ha affermato il vicepremier Luigi Di Maio dal palco della kermesse organizzata a Roma dal M5s per la presentazione del decretone. E il premier Giuseppe Conte ha aggiunto: “Vogliamo che tutti i cittadini possano prenderne parte: il reddito sarà pilastro portante e vigilerò con tutti gli strumenti a disposizione affinché questo progetto non sia deturpato da furbizie, abusi e storture di sorta”. In una fase di stagnazione dell’economia italiana, con le stime di crescita del Pil che ogni giorno vengono tagliate, sarà davvero così? E se dovesse arrivare la recessione? Basteranno le risorse o si renderà necessario mettere mano a tagli o manovre correttive in corso d’anno? Lo abbiamo chiesto a Francesco Daveri, professore di Macroeconomia all’Università Bocconi di Milano.



Professore, partiamo dalla recessione. Lei sostiene che non arriverà. Perché?

Lo dico a livello internazionale. Non mi sembra che al momento ci sia un’evidenza forte di sintomi che inducano a pensare che arriverà una recessione generalizzata come nel 2008-2009.

Per quali ragioni?

Ha un ruolo rilevante il mercato della casa, che non mostra segni di nette riduzioni, anche se negli Usa si è un po’ fermato, ma resta su livelli alti, più alti che nel 2007. Le notizie negative, più che dall’economia, possono arrivare dalla politica.



Per esempio?

I dazi, soprattutto se giocati in modo ritorsivo gli uni contro gli altri. Se la guerra tariffaria che hanno iniziato a combattere Stati Uniti e Cina, e anche un po’ con l’Europa, dovesse estendersi, allora potrebbe arrivare una minaccia pericolosa. Per ora siamo in una fase di negoziato, per cui non è detto che i dazi imposti da Trump si tradurranno in un’escalation. E’ presto per fasciarsi la testa.

Le altre cause?

Arrivano dall’Europa e sono i dati negativi relativi specificatamente a Germania e Italia. La Germania deve fare i conti con il processo di adattamento ai nuovi standard ambientali dell’industria automotive, ma mi aspetto che il rallentamento sia solo temporaneo.



E l’Italia?

Un po’ dipendiamo dai tedeschi: se la Germania va male, anche noi ne risentiamo negativamente. Un po’ il Governo ci ha auto-inflitto una quota parte del peggioramento con la presentazione di un disegno di legge di bilancio, nelle sue prime versioni, inadeguata alle necessità.

Perché?

Dal punto di vista della quantità, perché faceva troppo deficit e dava un segnale di voler abbandonare il controllo dei conti pubblici. Quanto alla qualità della spesa pubblica, era diversa rispetto a quella associata a una maggiore crescita economica. Questo secondo aspetto non è stato modificato, ma il primo sì, nella forma approvata nella Legge di bilancio. E questo ha tranquillizzato i mercati e la Ue, facendo scendere lo spread. Così, in questa fase di correzione, affrontiamo una situazione meno drammatica rispetto alle prospettive che si erano manifestate tre-quattro mesi fa con politiche che non venivano capite dai mercati e dall’Europa.

Intanto è partita una corsa al taglio delle stime di crescita del Pil nel 2019. Ogni giorno c’è chi dice che l’asticella è ben al di sotto del +1% fissato dal Governo. Dobbiamo davvero preoccuparci?

Una delle ragioni che aveva inquietato i mercati era, per l’appunto, che le stime del Governo erano ritenute troppo ottimistiche. Dopo la presentazione di quelle stime, la congiuntura è peggiorata, e ciò avrebbe dovuto indurre il governo a rivedere automaticamente all’ingiù quelle stime. In più il Governo ha ridotto le risorse destinate a una politica fiscale più espansiva, quindi nell’insieme possiamo aspettarci un impulso limitato al rilancio dell’economia. Ora, con una manovra più prudente, lo scenario di uno spread stabilmente alto, con ricadute negative su deficit e accesso al credito per imprese e famiglie, è stato attenuato. Rimane però il fatto che la qualità della manovra è più protettiva che espansiva, tende cioè a tutelare alcune categorie ritenute meritevoli di assistenza.

Reddito di cittadinanza e quota 100 si reggono su previsioni di crescita del Pil all’1%. Se la crescita fosse meno impetuosa e più stentata, le due misure avranno ancora una loro sostenibilità o avremo bisogno di una manovra correttiva?

Dipende quanto forte sarà il rallentamento della crescita. Se anziché +1% si fa +0,6%, vuol dire un aumento del deficit pubblico di 0,2 punti percentuali. Si andrebbe cioè al 2,2%, difficile però che la Ue ci chieda una manovra correttiva e quindi che si debbano adottare politiche di austerità in fretta e furia, per di più autolesionistiche per un Paese che sta già vivendo un rallentamento dell’economia.

Che cosa potrà succedere?

Se lasciamo salire il deficit, dovremo tagliare le risorse destinate in precedenza alle due misure cardine.

Ma se l’economia andasse veramente male?

Potremmo ritrovarci con più persone bisognose del Rdc e quindi potrebbe aumentare la quantità di fondi necessari per fronteggiare la situazione. Ma per il momento è uno scenario ancora ipotetico.

Resta il fatto che rischiamo di tornare a crescere di uno zero-virgola, dopo anni in cui il gap con la media Ue è stato costantemente almeno di un punto percentuale in meno. Non è il caso di ripensare una sterzata? E con quali misure?

Il Governo non ha fatto mistero che preferisce fare politiche che tutelino anziché politiche che guardino al futuro. Quindi ci ritroveremo con la crescita che il Governo ci consente di avere. E se le cose dovessero andar male, abbiamo ora degli strumenti, costosi, per proteggere quelle categorie che finiscono tipicamente in difficoltà nel mezzo di una recessione. Nessuno mette in dubbio che ci sia un forte disagio sociale in Italia, che va affrontato. In discussione è il fatto che se disagio e povertà si affrontano con uno strumento come il Rdc si corre il rischio di ricreare un’economia assistita.

Cosa sarebbe preferibile fare?

Utilizzare strumenti di assistenza alle persone in stato di bisogno che le incentivino a rientrare in modo più efficace nel mercato del lavoro. Il disegno alla base del Rdc è complicato, prevede controlli che lo Stato molto probabilmente non riuscirà a garantire con le risorse esistenti e anche se si assumessero nuove risorse nei Centri per l’impiego, queste dovrebbero essere formate.

Nella kermesse che ieri il M5s ha dedicato alla presentazione del Rdc Conte e Di Maio si sono detti convinti che la misura offrirà sicurezza alle fasce deboli in caso di recessione, che il beneficio durerà 18 mesi ed è legato al rispetto di alcuni requisiti di politica attiva. Che ne pensa?

Le fasce più deboli spesso sono non facilmente occupabili. Il periodo dei 18 mesi per farle rientrare nel mercato del lavoro non è congruo. C’è una sovrastima dell’efficacia delle politiche predisposte e che passano per i Centri per l’impiego.

Secondo lei, è quindi probabile che, una volta scaduti i 18 mesi, le persone si ritrovino ancora una volta nelle stesse situazioni di bisogno?

Può essere, e a quel punto ce lo vede il governo che dice: bene, 18 mesi fa vi abbiamo preso che eravate bisognosi, adesso che siete ancora bisognosi come prima vi lasciamo in mezzo alla strada. Non credo che lo vorranno fare, quindi bisogna mettere in atto politiche credibili, perché il meccanismo previsto è complicato e sarà difficile che funzioni. Possiamo augurarcelo, certo, ma bisognerà pure vedere quale sarà il costo per le finanze pubbliche, perché così si sottraggono risorse utili per misure alternative che potevano servire a ridurre la pressione fiscale e a incoraggiare le imprese a fare investimenti.

(Marco Biscella)