Povero Jair Bolsonaro, pensava di essere furbo. Di aver fatto il proverbiale tredici al Totocalcio. Pensava di poterla fare franca, di essere arrivato dov’è arrivato (e come ci è arrivato, ma questa è un’altra storia e sarà la Storia, quella con esse maiuscola, a dare il suo giudizio) senza dover pagare dazio. Non subito, almeno. Addirittura, ha voluto fare il brillante con l’operazione Cesare Battisti, tanto per rendere palese e consolidare l’asse transatlantico con quello che vede – o, forse, gli è stato indicato – come referente sovranista/populista in Europa per il suo Paese, il ministro Matteo Salvini. Ma non ha capito, essendo un ex militare che della politica sa poco o nulla, in quale vespaio è andato a infilarsi. E non solo perché parla da monarca pur non avendo una maggioranza parlamentare per fare ciò che promette. Anzi, in realtà martedì pomeriggio, mentre Emmanuel Macron e Angela Merkel firmavano il “patto di Aquisgrana“, il nostro neo-presidente ha cominciato a capirlo. Ed è stata una doccia fredda. Di quelle che ti lasciano impietrito.



Guardate questo grafico, il quale ci mostra plasticamente la reazione del real brasiliano alle parole di Jair Bolsonaro dal palco del World Economic Forum di Davos, dove – complici le assenze dei grossi calibri, Donald Trump in testa – rappresenta un po’ l’attrazione principale. Diciamo che quella linea gialla parla chiaro e che ho visto più entusiasmo per l’ingresso in campo di Ignazio Abate: e chi è milanista come me, sa cosa significa.



Il nostro presidentissimo non ha capito che non c’è tempo da perdere, che non può parlare genericamente di riforme e apertura dell’economia brasiliana ai mercati dopo la stagione vetero-comunista dell’accoppiata Lula-Rousseff: gli investitori vogliono polpa, subito. Vogliono privatizzazioni, preferibilmente sotto forma di svendita. In primis, il gioiello Petrobras e le sue concessioni in esclusiva riguardo il petrolio contenuto nelle rocce saline al largo del golfo di Santos. A miracolati come lui, messi al potere come burattini per comportarsi come tali senza fare troppe domande, non vengono tributati onori particolari o rispetti formali dell’etichetta: tutto e subito, perché sta arrivando la bufera e nessuno ha voglia di mettersi a fare affari, quando magari le piazze sono piene, i mercati nel panico e la gente molto, molto incazzata.



Perché per quanto tu possa promettere legge e ordine, garantire armi libere per tutti e mandare l’esercito a Fortaleza a far vedere quanto sei un duro, la gente deve fare i conti con la quotidianità. Con il lavoro, il potere d’acquisto, l’inflazione. Tutte cose che ci vuole un attimo a mandare fuori controllo, se non stai ai patti, più o meno scritti. E quella reazione del real durante il bel discorsetto di Davos è stato un antipasto di quelli che ci vuole un po’ a digerire e che ti toglie l’appetito del tutto.

E sapete cosa l’ha innescata? La risposta di Bolsonaro, quando il fondatore del Forum, Klaus Schwab, lo ha incalzato sulla protezione ambientale; «Noi proteggeremo l’ambiente, nessun Paese ha tante foreste come il Brasile». Risposta sbagliata, a chi ha deciso che occorreva una “svolta”, un governo del cambiamento anche in Sud America, dell’ambiente e delle foreste frega meno che a me della buona riuscita del reddito di cittadinanza. Et voilà, il messaggio è stato inviato. C’è paura a Davos, quest’anno. E non di attentati. C’è paura che qualcuno stia giocando con il fuoco e non capisca quando è ora di prendere l’estintore e usarlo. Certo, ufficialmente si parla di tante cose, dotte disquisizioni accademiche sulla globalizzazione 4.0, come recita il tema del simposio in corso, ma, alla fine, si parla solo di una cosa: recessione. Declinata, ovviamente, attraverso i soggetti che possono mitigarla oppure tramutarla in depressione epocale e globale: Usa e Cina. Il resto, è cotè degno di un vernissage da intellettuale dell’economia. Pippe, se mi passate il termine inelegante.

È bastato che a due ore dalla chiusura di Wall Street, sempre martedì, circolasse la voce dell’annullamento del vertice Usa-Cina previsto per fine mese e la Borsa americana si è afflosciata come un soufflé, bruciando in una seduta i guadagni delle quattro precedenti. Puff. E il tutto, con il portavoce della Casa Bianca, Larry Kudlow, che smentiva ufficialmente il rumor del Financial Times sulla cancellazione del meeting e con Ibm che ha battuto le attese su utili e guidance, altrimenti il rosso sarebbe stato ancora più profondo. Ieri, poi, come se nulla fosse accaduto: apertura positiva, ottimismo. Più che altro, schizofrenia. Ma tra le pieghe dell’ufficialità, fa capolino anche qualche perla dalle Alpi svizzere. Come questo grafico, sunto totale e perfetto dello status quo globale, del frutto marcio della globalizzazione senza regole che ora ci tocca mangiare a forza.

Compara la percentuale di cittadini francesi che pensa di poter avere una vita migliore di quella che ha vissuto la generazione dei suoi genitori con i pareri al riguardo di cittadini cinesi: l’Europa, se vogliamo usare la Francia come proxy dell’intero Continente, oggi è questo. Morta. Senza futuro. Un deserto di speranza e opportunità, dove ovviamente trovano terreno fertile i vari Brexit, gilet gialli, governi del cambiamento e altre amenità, figlie legittime delle disperazione e della disillusione per le classi dirigenti che ci hanno portato a questo punto di non ritorno, a questo Zabriskie Point della crescita. Ora, capite bene che o diamo una risposta a quel grafico e alle percentuali da brividi che ci comunica o è meglio che chiudiamo baracca e burattini.

Chi è giovane e ancora può, prenda un aereo di sola andata per Cina o Usa e tenti la fortuna, sperando di trovare ancora uno scampolo di età d’oro del debito allegro da cui trarre beneficio. Per gli altri, scrivente compreso, non c’è alternativa. Il mondo, ormai, vive sul mordi e fuggi. Il momentum generale preminente è quello mostrato dal grafico dell’andamento del real durante il discorso di Bolsonaro a Davos: tutto e subito, mordi e fuggi. Per il semplice fatto che, indebitati e dipendenti unicamente dal denaro gratis creato in cantina dalle Banche centrali come siamo, dobbiamo vivere appunto anticipando il giorno del giudizio, rubando attimi. E sperando che il redde rationem definitivo venga rimandato il più possibile, con ogni mezzo. Le prossime generazioni? Chissenefrega, si arrangino. Come ci mostra plasticamente il sondaggio sul futuro che compara cittadini francesi e cinesi.

Perché pensate che Merkel e Macron abbiano dato vita a quel patto l’altro giorno, davvero pensate che fosse una riedizione dell’asse Adenauer-De Gaulle per rilanciare l’idea stessa di Europa unita? Balle, fa riferimento unicamente all’urgenza di unire due debolezze nella speranza che salti fuori almeno una mezza forza. Perché per quanto abbiano entrambi enormi limiti politici, a differenza di chi governa l’Italia, almeno hanno ben presente la magnitudo della crisi che dovremo affrontare a breve. Perché pensate che ci sarà una sorta di fusione anche fra le due economie, se non – ad esempio – per cercare di mantenere a galla in qualche modo lo strategico mercato dell’auto di entrambe i Paesi, altrimenti destinato alla fine sotto i colpi della concorrenza americana e asiatica? E poco mi importa che, dopo aver nominato Lino Banfi ambasciatore dell’Italia all’Unesco, il ministro Di Maio abbia ammesso implicitamente che il rischio di recessione è reale, dopo averlo negato pateticamente fino a pochi istanti prima (dal nuovo boom alla crisi incombente in meno di una settimana, nuovo record della pista): far gestire una recessione a gente del genere equivale a far pilotare un caccia da combattimento a un tranviere dell’Atm, per quanto abilissimo nel gestire la linea del 4 fino a Niguarda.

Suicidarsi è più dignitoso, almeno si sceglie come e quando morire. Altrove, lontano da Aquisgrana, da Davos e anche da Roma, i tuoni di guerra cominciano a farsi minacciosi. Il Venezuela di Maduro ha le ore contate, dopo il tentato colpo di Stato di inizio settimana è chiaro che la dottrina Cebrowski di cui vi ho parlato in un mio recente articolo è entrata in operatività forza quattro e il fatto che martedì nientemeno che il vice-presidente Usa, Mike Pence, abbia invitato i venezuelani a rivoltarsi contro quello che Washington ritiene un governo illegittimo, parla la lingua di un ultimatum che sta scadendo. Altrove, ma con medesime modalità di destabilizzazione globale per procura, Israele e Iran fanno le prove generali della resa dei conti che inseguono da anni: Bibi Netanyahu non ha convocato elezioni anticipate in primavera, sfidando tutti i sondaggi, per caso.

Il quadro è questo, desolante, ma da affrontare guardandolo dritto negli occhi. Voltarsi dall’altra parte o mettere la testa sotto la sabbia, come l’Ue ha fatto fino a oggi, ad esempio, ci ha portato alla condizione attuale, a quel sondaggio da pelle d’oca sul futuro che i giovani francesi vedono davanti a sé. Quella che abbiamo di fronte, è la sfida del secolo. Quella che si può affrontare una volta sola, quella che se fallita ci condanna senza appello. Non mi pare che lo stiamo capendo. E non parlo solo del Governo o di quell’accozzaglia che si vorrebbe spacciare per opposizione, da qualunque latitudine ideologica la si guardi: parlo dell’Italia intesa come sistema e come comunità. Umana, politica, intellettuale, produttiva, culturale. Ma tranquilli, perché questa schermata di agenzia conferma ciò che vi dico da trimestri e trimestri, tra le risa ora sempre meno udibili dei detrattori: un lancio dopo l’altro, ecco che il concetto stesso di Qe perenne ha fatto il suo debutto in società. E per farlo, noblesse oblige, ha scelto proprio Davos, cornice degna e autorevole come poche.

Chi ha dichiarato quei concetti, di fatto la pietra tombale su ogni panzana riguardo un’economia che non necessita più di stimolo monetario, come dimostra il video integrale? Axel A. Weber, ex governatore della Bundesbank, ex membro del board della Bce (dal 2004 al 2011), ex membro del board della Banca per i regolamenti internazionali, visiting professor alla University of Chicago Booth School of Business e attualmente impegnato in un compito da nulla come presidente del Consiglio di amministrazione di Ubs, il gigante finanziario svizzero. Un signor nessuno, insomma. Non come certi economisti che impazzano nei talk-show. Quelli sì che ci vedono lungo.