È accaduto raramente – forse mai – che dal Forum di Davos venisse additato un successo italiano di politica economica. Per la precisione: il “modello Lombardia” sul terreno delle politiche attive per il lavoro. È accaduto sabato sul Corriere della Sera, a firma del vicedirettore Federico Fubini, ultimamente finito alle cronache per le accuse mossegli dal collega Ivo Caizzi (corrispondente da Bruxelles) per presunto élitismo globalista e per le tenaci posizioni euro-critiche al Governo italiano attorno al parto dell’ultima manovra.



Nell’ultima corrispondenza dal World Economic Forum, Fubini ha pensato di intervistare non un economista o un banchiere, ma un diverso “Davos Man”: Stefano Scabbio, amministratore delegato di ManpowerGroup per l’Europa del Nord, dell’Est e del Sud. Manpower è una multinazionale americana, terza global player dopo la svizzera Adecco e l’olandese Randstad nel settore dei servizi per il mercato del lavoro. 



Scabbio (che in Italia è stato anche presidente dell’Assolavoro, l’associazione delle agenzie private) è stato subito sollecitato a criticare sia il “reddito di cittadinanza” che il “decreto dignità”: i due principali output di politica economica di M5S al governo. Naturalmente non si è tirato indietro. E un manager del mercato del lavoro alle prese con la demografia si è speso volentieri anche per il ruolo “fondamentale” dei flussi migratori in un sistema-Paese come quello italiano. Né ha fatto mancare qualche dubbio sulla “flat tax” al 15% voluta dalla Lega per le partite Iva fino a 65mila euro: s’intravvedono rischi reali di una flessibilizzazione incontrollata del mercato del lavoro.



Quando tuttavia la conversazione critica si è estesa al progetto di rilancio del collocamento pubblico con l’assunzione di 6mila statali preannunciata dal super-ministro Di Maio, Scabbio è stato tranchant: “Il reddito di cittadinanza ha funzionato benissimo in America Latina come risposta a certe fasce di povertà. Non ha invece funzionato benissimo quando lo si usa come percorso per l’occupazione o intervento di politica attiva per il lavoro”. E su questo terreno sarebbe meglio “continuare in maniera più forte sulle politiche già iniziate – la Lombardia è un esempio – coinvolgendo servizi privati per l’impiego. Ancorando la formazione al collocamento, con una presa in carico, una valutazione dei punti di debolezza di chi cerca lavoro e l’intervento formativo: questo funziona”.

Un’analisi concisa e precisa: del tutto condivisibile anzitutto perché – come sottintende Scabbio – in Lombardia è concretamente condivisa da molti anni fra Regione, agenzie per il lavoro, imprese, job-seekers di ogni età e background. È un modello che ha fatto in parte da matrice-incubatrice per il Jobs Act del governo Renzi e dato contesto strutturale alla Milano dell’Expo.

Chi non ha mai condiviso il “modello Lombardia” sono stati gli Uomini di Davos, italiani e lombardi compresi. La ragione principale è che gli “Uomini del Modello Lombardia” – i leader politici e gli amministratori che si sono succeduti in Regione e le forze economiche e sociali che hanno sviluppato misure come Dote Unica per il Lavoro – a Davos non si sono mai preoccupati di andarci. Hanno invece sempre badato a distinguersi dal liberismo globalista predicato e praticato al World Economic Forum come rito ideologico di potere. I molti pensatori e attori del “modello Lombardia” hanno invece sempre tenuto la sussidiarietà come bussola di public policy. Un principio – quello di sussidiarietà multidimensionale – affermato nella Costituzione italiana come in quella europea, ma pochissimo realizzato sia in Italia che nell’Ue, anche perché sempre osteggiato dell’iper-liberismo apolide di Davos. 

Fanno bene gli Uomini di Davos ad aggiornare in fretta case study, talk show, titoli di intervista sui grandi opinion-media. Certo che c’è bisogno di nuovi modelli economici e di nuovi contratti sociali. Sicuro che la Lombardia degli ultimi vent’anni ha qualcosa da dire sulle grandi opzioni europee dei prossimi venti. Ma sbaglieranno – gli Uomini di Davos – fino a che penseranno di poter strumentalizzare ricette non loro – anzi – come scudo improvvisato in un confronto ben più ampio dello stesso appuntamento elettorale europeo di primavera.