Sì alla democrazia, no alla rivoluzione! No, non è uno slogan intonato in queste ore nelle vie di Caracas. È il refrain che ha risuonato domenica per quelle di Parigi, nel corso della manifestazione dei foulard rossi, antagonisti dei gilet gialli in nome dell’ordine e del dialogo non violento, in quella che ormai pare una patetica contrapposizione cromatica fra guardaroba. Siamo ridotti così, signori miei. Le rivoluzioni nascono su Internet, si sviluppano attorno a canoni meramente estetici e muoiono come mode, quasi fossero risvoltini dei pantaloni o spalline nelle giacche.
E chi gode di tutto questo, chi se la ride di gusto? Emmanuel Macron, il quale in una settimana ha portato a casa il massimo ottenibile, a livello politico. Ha spaccato in due non solo i gilet gialli, ma anche il fronte moderato interno allo stesso movimento, già intento a scindersi e litigare sulle liste per le europee, ha sancito il patto di Aquisgrana con Angela Merkel, ribadendo a Spagna, Portogallo e Italia chi comanda in Europa (o in ciò che di essa resterà, dopo che recessione e caos Brexit – comunque vada a finire – le saranno passati sopra come un tifone) e ha visto sfilare per le vie della Ville Lumiere il corrispettivo d’Oltralpe delle madamin torinesi favorevoli alla Tav. Di fatto, gente che magari non lo ha votato, gente che magari non lo apprezza come Presidente, ma che, se posta di fronte alla scelta fra lui e i casseurs del sabato pomeriggio, non ha dubbi su quale opzione preferire. La Republique! La logica, tutta francese, del “fronte repubblicano” contro l’uomo nero di turno.
Erano 10mila i foulard rossi a Parigi domenica, il giorno prima i gilet gialli erano meno di 3mila. Certo, spaccando tutto e incendiando auto hanno avuto per l’ennesima volta l’eco mediatica degna di una moltitudine, ma, oramai, il giochino si sta esaurendo. E quella “borghesia” in piazza contro saccheggi e violenze lo certifica. Anzi, certifica la sconfitta degli stessi gilet gialli. Senza che il Governo abbia dovuto fare altro che dar vita a un farsesco e quantomai nebuloso tavolo di confronto a livello nazionale, roba che un discorso di Walter Veltroni in confronto va più sul concreto e sul pratico. Pericolo scampato, oltretutto con netto anticipo sul vivo della campagna elettorale per le europee.
È questo l’Emmanuel Macron contro cui il nostro Governo sta ingaggiando un braccio di ferro sempre più pesante e quotidiano? È questo, soprattutto, l’Emmanuel Macron dato per politicamente morto, per mano della rivoluzione gialla, non più tardi che a inizio dicembre? Se sì, auguroni. A me pare che scoppi di salute. Perché questo preambolo? Perché Emmanuel Macron ha parlato chiaramente l’altro giorno, rispondendo a chi gli chiedeva conto delle continue accuse nei suoi confronti e in quelli della Francia da parte dei ministri Salvini e Di Maio, nella loro qualità di vice-premier: «L’Italia merita leader migliori». Non vi ricorda qualcosa? Ad esempio, non vi ricorda la campagna anti-Maduro in atto, la quale sta raccogliendo adesioni bipartisan, a destra come nel Pd, contro il “dittatore comunista”?
Certo, c’è la differenza che il voto venezuelano, a detta di molti, sia stato viziato alla base da brogli e paura, mentre quello italiano del 4 marzo è stato libero e consapevole. Innegabile. Ma resta il principio. Perché per settimane intere, Nicolàs Maduro è rimasto al suo posto, da eletto. E nessuno aveva più nulla da ridire, in altre faccende geopolitiche affaccendato. Poi, di colpo, l’accelerazione imposta da una piazza eterodiretta dall’autoproclamatosi presidente Juan Guaidò e dalla Casa Bianca, la quale ha riconosciuto il giovane ingegnere a tempo di record. Subito dopo, guidata proprio dalla Francia, dalla Germania e dalla Spagna, l’Ue ha addirittura dato gli otto giorni a Maduro, come alle colf licenziate: o si torna al voto o anche noi riconosceremo Guaidò.
Ora, con il lavoro che faccio e per il modo in cui lo faccio, tendenzialmente in Venezuela sarei in galera. O al confino. Ma chi siamo noi, occidentali di varia progenie, per deporre un Presidente eletto a orologeria? Abbiamo strepitato come pazzi quando l’Irlanda è stata richiamata al voto sul Trattato di Nizza, dopo la prima bocciatura e inorridiamo in molti casi alla sola ipotesi di ripetizione del referendum sul Brexit, ma ci va benissimo che il Dipartimento di Stato chiami a raccolta i sudditi per decidere, quasi manu militari, chi deve governare il Venezuela? Perché attenzione alla sottile ma fondamentale differenza: l’Ue chiede il ritorno al voto in tempi rapidissimi, pena il riconoscimento di Guaidò. Gli Usa no, loro hanno già riconosciuto Guaidò. Non vogliono libere elezioni, vogliono il loro uomo al potere. D’emblée.
Scusate se è poco, come precedente. Per carità, gli Usa lo hanno sempre fatto in America Latina, ritenuta il loro giardino di casa, basti pensare al golpe cileno per deporre Salvador Allende. Qui però c’è qualcosa di scandalosamente pacchiano, ovvero una rivendicazione del calpestare ogni minimo principio democratico di rappresentanza: esattamente la stessa accusa che viene mossa a Nicolàs Maduro, se ci fate caso. D’altronde, parliamo dello stesso governo che nel 2017 impose sanzioni contro il Venezuela, ma esentò Goldman Sachs dal poter operare trading sui bond sovrani e della compagnia petrolifera di Stato che aveva appena comprato a prezzo stracciato, un nozionale di 2,8 miliardi di dollari per poco più di 800 milioni. Un affarone, sempre che Maduro non facesse scherzi. Ad esempio, decidere di ristrutturare gli 80 e passa miliardi di debito venezuelano, sovrano e aziendale di Stato. In quel caso, si rischiava di perdere tutto.
Già, perché Goldman ha sì venduto parte di quei bond in ossequio al regalo di esenzione di Donald Trump, ma si è tenuta comunque un nozionale di 1,3 miliardi in tasca, giusto perché l’istinto del pescecane pareva consigliare così. E cosa è accaduto lunedì sera? Non solo Juan Guaidò ha preso il controllo di tutti i beni esteri esteri venezuelani, in testa gli 1,8 miliardi di lingotti d’oro sotto il controllo della Bank of England, ma tanto per aiutarlo a strangolare fiscalmente l’unica entrata del governo Maduro, Washington ha imposto sanzioni contro il comparto petrolifero di Caracas, ovvero Pdvsa e Citgo, le punte di diamante dell’industria per evitare il default della quali il buon Guiadò ha già pronti nuovi membri – a lui fedeli – dei consigli di amministrazione. Questa è la reazione del prezzo del bond Pdvsa con scadenza 2026 alla decisione di Washington. Strano, vero? Beato chi le detiene, che ne dite?
Ma non basta. In questo articolo del 1 gennaio anticipavo tutto quanto sta accadendo, pressoché per filo e per segno e dicevo chiaramente come alla base di tutto ci sia un piano di riattivazione della dottrina Cebrowski nata in casa neocon con Donald Rumsfeld e ora riportata in auge da John Bolton, potentissimo nuovo capo della Sicurezza nazionale e, di fatto, capo ad interim della politica estera e di difesa, con enorme irritazione del Pentagono. E cos’ha detto John Bolton subito dopo l’annuncio delle nuove sanzioni Usa contro il Venezuela? «Attualmente stiamo dialogando con le principali aziende (petrolifere, ndr) americane.. Farebbe una grande differenza se potessimo avere aziende americane che producono petrolio in Venezuela. Sarebbe una buona cosa sia per la gente di quel Paese che per gli statunitensi». Che grande cuore, pensa al bene del popolo! E guardate come lo fa
https://twitter.com/RaoKomar747/status/1090005450492465152/photo/1
ciò che vedete è la cartellina degli appunti con cui Bolton si è presentato in conferenza stampa e, grazie a uno scoop un filino più serio di quello di PiazzaPulita fra Conte e la Merkel, ma di cui nessuno qui ha parlato, la Nbc ha svelato un particolare interessante. Recava questa scritta: Afghanistan -> Welcome the Talks. 5,000 troops to Colombia. Già, perché nel frattempo, gli Usa avevano deciso anche di fare pace con i Talebani e di sbaraccare le truppe in Afghanistan, dopo quelle in Siria. Esattamente come scrivevo nel mio articolo del 1 gennaio, la Colombia del presidente filo-Usa Ivàn Duque – casualmente finito nel mirino di un presunto attentato di agenti venezuelani a fine anno – sarà l’avamposto per la grande conquista Usa del Sud America attraverso i suoi nuovi avamposti “sovranisti”: la Colombia appunto e il Brasile di Jair Bolsonaro. Nel mirino, i due governi ribelli: prima il Venezuela e poi, soprattutto, il Nicaragua. I quali, per carità, possono avere esecutivi terribili, sgraditi e illiberali, ma gli Usa di Donald Trump non erano quelli dell’isolazionismo, dell’America first, dello stop all’interventismo, alla Nato e al ruolo di “gendarme del mondo”?
Solo su questo, vi invito a riflettere. Su ciò che non vi dicono rispetto al Venezuela oggi e il Nicaragua domani, spacciandovi il tutto per lotta in nome della democrazia e dei diritti umani. Alla luce di tutto questo, poi, ripensate alle parole di Emmanuel Macron sui nostri leader (che, come sapete, certamente non apprezzo). E riflettete ancora. Buona fortuna.