Proviamo a fermarci e mettere le cose in prospettiva. Se la faccenda non fosse chiara, fra meno di due mesi la Gran Bretagna dovrebbe dire ufficialmente addio all’Ue. Non un annuncio, un addio. Ovvero, dalla mattina seguente a quella del 29 marzo, tutto dovrebbe essere cambiato. A livello commerciale, doganale, di rapporti bilaterali fra governi, diplomatici, di circolazione di uomini e merci. Tutto. Londra non sarà più membro dell’Unione, diventerà come gli Stati Uniti. Avete letto bene: gli Stati Uniti. Perché la questione qui non è meramente di eurozona, ovvero di adozione di una valuta differente dall’euro: Londra non l’ha mai avuta, si è sempre gelosamente tenuta in tasca la sterlina. Come la Svezia con la sua corona. Come la Polonia con il suo zloty. Ma queste ultime due, ad esempio, fanno parte dell’Ue e continueranno a farlo. Ma lo status cui andrà incontro a breve la Gran Bretagna non è nemmeno quello della Norvegia, la quale non fa parte dell’Ue e ha la sua valuta, la corona, ma è legata all’Europa politica-economica dall’adesione al Trattato Efta, allo Spazio economico europeo e al Trattato di Schengen sulla libera circolazione. Londra, al momento, no. Il Regno Unito fra meno di due mesi diverrà apolide, di fatto vivrà in un limbo. Sovranamente apolide, ben inteso. Perché dopo il voto di Westminster di martedì sera, tutto torna alla casella iniziale. Come in un Monopoli tragicomico.
Quella ottenuta da Theresa May, infatti, è stata la classica vittoria di Pirro. Ma occorre conoscere bene i fatti, per capire dove stiamo andando come Europa. E cosa ci attende. Primo, il Parlamento britannico si è espresso su una serie di sette emendamenti legati alla legge che regola il Brexit, dopo la prima bocciatura di gennaio dell’accordo raggiunto dal governo con la Commissione Ue. Tre quelli fondamentali: l’emendamento Brady, l’emendamento Spelman e l’emendamento Cooper. I primi due approvati, il terzo bocciato. E proprio quest’ultima bocciatura è quella che ha spinto molti media a dipingere l’accaduto come una vittoria, una rivincita della zoppicante primo ministro sui suoi avversari, prima di tutto interni ai Tories. Si trattava infatti della proposta di modifica alla legge sul Brexit presentata dalla deputata laburista Yvette Cooper, attraverso la quale di fatto si rendeva possibile un rinvio del Brexit. Anticamera, a detta di molti, del voto anticipato, perché avrebbe messo sulla graticola a tal punto la May da costringerla a indire nuove elezioni. Queste ultime, a loro volta, anticamera di un secondo referendum sull’uscita dall’Ue, visto il vantaggio nei sondaggi dei laburisti, espressisi in tal senso proprio alla vigilia del passaggio parlamentare di martedì. Quindi, niente rinvio. Sarà comunque il 29 marzo il d-day di Londra, con l’accordo o in maniera disordinata, tipo salto nel buio. No deal, insomma.
C’è poi stato l’emendamento Brady, secondo tassello del mosaico vincente della May, visto che con la sua approvazione per 317 voti contro 301, garantisce alla primo ministro il mandato parlamentare per tornare a Bruxelles a trattare per un nuovo accordo da sottoporre poi nuovamente a Westminster, al più tardi il 13 febbraio prossimo. Alla base delle nuove trattative, la rimozione del cosiddetto backstop – la garanzia – sulle libere frontiere fra Irlanda del Nord britannica e Repubblica d’Irlanda, parte dell’Ue e la sua sostituzione con un accordo alternativo da concordare. Insomma, la May ha vinto? No, ha solo rimandato la sconfitta. Ha, di fatto, preso tempo. Calciato la lattina lungo il viale, sperando nel destino benigno. Bruxelles, nel frattempo, si è infatti affrettata a dire che l’accordo è quello già bocciato a gennaio dai parlamentari britannici, nessuna possibilità non solo di modifica ma nemmeno di riapertura del negoziato.
Vero? Ne dubito, alla fine si arriverà a un compromesso. Anche perché tutti hanno ignorato colpevolmente il terzo emendamento votato martedì sera, dopo la decisione di porlo all’attenzione dell’Aula del pittoresco Speaker, John Bercow, ormai noto al grande pubblico televisivo per le sue cravatte imbarazzanti e il suo stentoreo grido Order! rivolto ai parlamentari per richiamarli alla calma. L’emendamento Spelman, appunto. E di cosa si tratta? Passata per soli otto voti di scarto, 318 a 310, questa modifica alla legge sul Brexit (non vincolante, ma simbolicamente fondamentale e destinata a fare giurisprudenza, se ignorata) prevede che alla fine dell’accordo di uscita dall’Ue venga posto un codicillo nel quale si certifica che il Parlamento rifiuta l’abbandono dell’Unione senza appunto che un patto di addio sia in vigore e in corso di validità. Sembra un gioco di parole, un mero calembour costituzionale, ma non lo è affatto. E non occorre scomodare Walter Bagehot per capirlo.
Di fatto, se si arrivasse a un accordo raffazzonato, palesemente penalizzante per la Gran Bretagna o addirittura a nessun accordo, stante magari l’irremovibilità della posizione di Bruxelles, di fatto il Parlamento potrebbe esautorare la May e il governo, non riconoscendo quell’atto come valido. A quel punto, il voto del 13 febbraio (o prima, rappresentando quella data il termine ultimo) non sarebbe più soltanto la decisione definitiva sul Brexit, ma, di fatto, un palese voto di sfiducia alla premier e al governo. Un qualcosa, in mondovisione, che potrebbe tentare molto, più che i laburisti, gli stessi congiuranti interni ai Tories, Boris Johnson in testa. Insomma, per usare un francesismo elegante, un gran casino.
Tutto da creare, oltretutto, perché il voto di martedì sera a Westminster, lungi dall’essere stato quello decisivo, è stato soltanto l’ennesimo reset della questione Brexit: di fatto, si ricomincia da capo. Certo, partendo da una bozza di accordo pre-esistente, ma con due criticità. Anzi, tre. La prima, quella bozza su cui lavorare è già stata bocciata da Westminster a gennaio. Quindi, non può essere riproposta solo con la modifica del backstop irlandese. Secondo, l’Ue ha già detto no a nuove trattative. Terzo, si lavora contro il tempo. E non con un orizzonte temporale di anni o semestri: meno di due mesi. E con l’Ue alle prese con un paio di grane da niente come le elezioni europee del 23-26 maggio prossimi e l’ipotesi, di fatto confermata lunedì da Mario Draghi proprio di fronte all’Europarlmento, di una recessione alle porte. Il tutto per il risultato di un referendum tenutosi il 23 giugno del 2016, quindi non esattamente la settimana scorsa. Due anni e mezzo fa, quasi. Per arrivare a cosa? A voti parlamentari tipo maratona, a un accordo bocciato clamorosamente da una delle parti in causa e all’azzeramento di tutto il processo a due mesi dalla sua deadline ufficiale, di fatto ribadita ridicolmente martedì sera con la bocciatura dell’emendamento Cooper che apriva le porte a un saggio (e, ormai, nei fatti e nei tempi) rinvio: proposta che aveva raccolto la firma di 139 deputati su 650, di cui 11 Conservatori.
I mercati? Questa è stata la reazione del cambio della sterlina sul dollaro dopo la bocciatura dell’emendamento Cooper: schiantata dello 0,6% in un attimo, a quota 1,307. Insomma, chi investe scommetteva sul rinvio come viatico per un ritorno collettivo del buonsenso, basti vedere il buon risultato del Ftse 100 di Londra per tutta la giornata di martedì. E ieri? Identico, almeno fino all’ora di pranzo, quando veleggiava a +1,3%.
Su cosa scommette, quindi, la City? Sulle tre criticità che ho appena elencato. Soprattutto, sul fattore tempo. Contemporaneamente, infatti, prosegue la battaglia parallela, quella denominata in gergo Project Fear, ovvero l’ormai parossistico ampliamento dei piano di emergenza del governo in caso di no deal, lo stesso che ha già portato a simulazioni di ogni genere: di scorte di alimentari, acqua e farmaci, di esercitazioni per blocchi al porto di Dover e per la mancanza di carburante nel Paese. Siamo arrivati all’undicesimo aggiornamento del piano, ormai siamo alle soglie dell’invasione delle cavallette. O degli alieni. E non manca molto, vi assicuro.
Proprio ieri è stato pubblicato uno studio dell’Imperial College London e della University of Liverpool, elaborato su dati dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’Agenzia britannica delle dogane e modellato su scenari base per valutare l’impatto di un Brexit con un accordo di libero scambio con l’Ue e nazioni terze, uno solo con l’Ue e uno basato sul no deal. Il risultato? Fra il 2021 e il 2030 il Regno Unito potrebbe registrare un’impennata de decessi, addirittura più di 12mila oltre la media. La causa? Il Brexit senza accordo, il quale infatti porterebbe a un aumento automatico del costo dei generi alimentari freschi, tale da costringere moltissimi cittadini a diete non salutari.
Fa ridere. Ma c’è da piangere. Non vi basta? Il meglio lo ha reso noto l’Associated Press, la quale sempre ieri riportava la notizia di un aumento vertiginoso delle richieste di cittadinanza tedesca in previsione del Brexit. A confermare il dato, 3.380 richieste inoltrate dal referendum del giugno 2016 a oggi, direttamente l’ambasciata tedesca a Londra, la quale raffrontava il dato con la media di sole 20 richieste annue prima del voto per l’addio. Il problema è chi starebbe richiedendo quella cittadinanza: britannici di religione ebraica, facendo riferimento all’articolo 116 della Costituzione tedesca che permette ai discendenti di chi fu perseguitato dal regime nazista per motivi religiosi di tornare a essere tedesco (la cittadinanza fu tolta agli ebrei fra il 1933 e il 1945). Dunque, il grado di isteria legato al Brexit è tale che oltre 3mila ebrei britannici preferiscono andare in Germania, Paese che ha visto perseguitati i loro avi e che a sua volta la narrativa ufficiale vuole in piena ondata di ritorno di antisemitismo e razzismo, che restare nel Regno Unito dell’addio a Bruxelles, anche se questo avvenisse attraverso un accordo.
Capite che siamo in piena e totale distopia. Un po’ come in 1984 di George Orwell o ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley o nell’Arancia meccanica di Anthony Burgess. Guarda caso, tutti e tre autori britannici. Sarà un caso? Cosa si nasconde dietro l’enorme recita collettiva conosciuta come Brexit? Davvero, come penso da sempre, è stato soltanto lo sfogatoio plebiscitario-mediatico della rabbia popolare, necessario a un processo di riverginizzazione delle élites post-crisi finanziaria? Com’è possibile che la gente non si accorga del paradosso, dell’inconciliabilità realistica dell’allarmismo che contorna la vicenda sotto tutti i punti di vista – economico, politico, sociale, finanziario – con l’atteggiamento da studente sconsiderato che, avendo mesi per prepararsi a un esame, si riduce invece all’ultima settimana di nottatacce e maratone a base di caffè tenuto dal governo britannico (e, in parte, dall’Ue)? C’è dell’altro. E potrebbe avere molto a che fare con la meteoritica ascesa e l’altrettanto rapido declino dei gilet gialli in Francia o con la quasi sparizione dal dibattito europeo di Alternative fur Deutschland o del “pericolo nero” del governo austriaco, di fatto rivelatosi tra i più rigoristi, europeisti e mainstream di tutti.
Manca qualche tassello al mosaico, per capire meglio quale sia l’immagine finale? L’Italia gialloverde. Ma non manca molto, tranquilli.