Un vecchio adagio recita che ogni giorno ha la sua pena. Parafrasandolo e traslandolo nel mondo della finanza, si può dire che ogni giorno ha la sua emergenza. Quella di ieri, molto social, era il taglio delle stime sui ricavi da parte di Apple, a causa del rallentamento economico in Cina. Il giorno prima, era stato proprio il rallentamento del Dragone nel suo complesso a giustificare gli andamenti zoppicanti degli indici. Prima ancora, lo shutdown federale negli Usa. Poi il prezzo del petrolio. Poi la disputa commerciale con la Cina. Poi il rischio populista in Europa, incarnato dal nostro Governo e dai “Gilet gialli” francesi. Poi la Fed con il suo rialzo dei tassi. E poi la Bce con la fine del Qe. E poi… e poi… Mi viene da dire che i mercati, di fatto, sono un po’ come degli organismi fragili, come persone che tutti i giorni hanno un qualche malanno fisico che ne pregiudica l’attività.
Saggezza minima vorrebbe, anche senza una laurea in medicina, che se non un check-up completo, una persona in tal stato faccia almeno delle analisi del sangue ad ampio spettro, così da scongiurare le ipotesi peggiori. E invece no, tutto è colpa dello stress. Si rimanda sempre l’appuntamento con l’esame di rito, con la visita medica, con il controllo: passerà da solo, non è certamente nulla di grave. Non è così, signori miei. Che Apple sia una colossale bolla, lo sa chiunque: alla fine, per quanto belli e avveniristici, producono smartphones, non farmaci salva-vita o propellenti ecologici destinati a soppiantare del tutto il greggio. Non a caso, piantatosi – non ancora in maniera davvero preoccupante sul breve termine – il mercato più in ampia crescita, sia demografica che di consumi, ecco che fioccano i profit warnings.
Ed ecco che il mercato li accoglie come se il mondo stesse per finire, come se quella mela stilizzata fosse davvero alimento necessario al sostentamento fisico e non, come in realtà è, un mero status symbol totalmente non indispensabile. Ma Apple a parte, di cui non mi interessa nulla (forse sarà più preoccupata la Banca centrale svizzera, visto il controvalore di titoli della società di Cupertino che detiene), il problema è strutturale: i mercati sono un corpo malato che millanta salute. Fino allo scorso ottobre, la pantomima ha retto. Poi, la magrezza scheletrica dei loro fondamentali di fondo ha fatto scattare l’altrettanto proverbiale Il re è nudo.
Boom, tutto il mondo – stampa in testa – ha scoperto che la recessione è davanti a noi, sempre più probabile. E allora si agita, suda, ha tremori: ma, giunto sull’uscio di casa per recarsi dal medico, si ferma e pare star meglio. Addirittura, appare rinvigorito da patetici rimbalzi del gatto morto o da mega-coperture indotte di shorts. Quando si è disperati, ci si accontenta di poco. Ma si diventa non solo prevedibili, ma anche goffi nel millantare. La strategia è chiara: far peggiorare il malessere a tal punto da bypassare le visite e gli esami di rito e andare direttamente al pronto soccorso. Ovvero, nel reparto di terapia intensiva delle Banche centrali, le uniche, vere salva-vita di questa situazione contingente.
Esercizio pericoloso, però. Perché basta un niente, un incidente lungo la strada che faccia tardare l’ambulanza e il salvataggio può risultare vano, per quanto ci si applichi. Sapete qual è il virus che sta minando il corpaccione finanziario del mondo, dagli Usa alla Cina, dall’Europa agli emergenti? La mancanza di liquidità. Di fatto, il sangue. Ce lo mostrano plasticamente questi grafici, i quali non solo ci dicono che la siccità da collaterale sta uccidendo sempre più ampi settori del mercato, ma anche e soprattutto che c’è il forte rischio di utilizzare il precedente sbagliato, la diagnosi errata, per tamponare emergenzialmente la situazione, quando sarà matura per il ricovero d’urgenza.
Il forte rischio, infatti, è che si tratti la crisi 2018-2019 come quella del 2007-2008, a livello di liquidità che scarseggia nel sistema. Senza stare a fare discorsi troppo tecnici, basta far notare la differenza sostanziale, la medesima che c’è fra una broncopolmonite e una colica renale: nella precedente crisi, quella innescata da mutui subprime e conseguente crollo di Lehman Brothers, furono appunto degli episodi scatenanti a mandare fuori controllo una situazione totalmente esposta alla leva e all’indebitamento che era giunta alla fase pre-esplosiva della bolla, all’ultimo stage dello schema Ponzi prima della liquidazione. Insomma, il sistema bancario e quello che possiamo definire “ombra” delle finanziarie era totalmente rotto, sconnesso e stava in piedi per un equilibrio precario simile a quello degli ubriachi che si reggono gli uni con gli altri per non cascare. È bastato che saltasse un ingranaggio sistemico come Lehman e tutto è cascato, operando un effetto domino del tutto simile a quello innescato dalla caduta di qualcuno che tiene in cordata tutti gli altri.
Oggi, invece, la situazione è molto più simile a quella della crisi asiatica del 1997-1998, quando furono proprio le Banche centrali, Fed in testa, a innescare la reazione a catena con le loro politiche di contrazione delle fonti di liquidità primaria che portò a un rapido e auto-alimentante prosciugamento dei flussi monetari cross-border. Lo spiega alla perfezione la figura 4 nel secondo grafico, quello doppio.
Cosa accadde, infatti, nel 2007-2008 dopo il tonfo Lehman? Guardate la linea del moltiplicatore del credito (la ratio fra il credito totale e a base monetaria ufficiale) nel grafico, quella rossa: a creare il danno maggiore fu infatti un deleverage forzato dall’evento di credito, tanto che non appena la Fed ha cominciato a espandere il suo stato patrimoniale, la crisi ha trovato quello che possiamo definire un “punto d’appoggio” per puntellarsi e riprendere il cammino, ancorché zoppicante e faticoso. Oggi qual è la differenza con allora e la similitudine con la crisi asiatica? Che non siamo in presenza di un evento scatenante, ma di una politica più o meno coordinata e sincronizzata di contrazione monetaria da parte di praticamente tutte le Banche centrali, più o meno netta, le quali dopo anni e anni di fornitura continuativa e, di fatto, senza limiti di liquidità, hanno cominciato a drenarla.
E, nel caso della Fed, non solo attraverso lo stop all’acquisto di assets, bensì anche attraverso la liquidazione di quelli in detenzione, in ossequio al ribilanciamento dello stato patrimoniale (errore quest’ultimo che, vista la situazione reale che abbiamo di fronte, ad esempio non commetteranno Mario Draghi e la Bce). Qui non c’è un atto di rottura che può essere tamponato come un’emorragia, ovvero limitando la perdita di sangue del paziente e contemporaneamente somministrandogli trasfusioni, bensì un lento e finora mal digerito dissanguamento che è diventato strutturale: adesso, però, il corpo – ovvero, i mercati – che finora aveva fatto ricorso a tutte le sue riserve per andare avanti, è quasi esangue. E ogni movimento diventa non solo più faticoso ma più pericoloso, più a rischio di caduta o frattura: ecco spiegati i fenomeni schizofrenici dei mercati che salgono o scendono di 4-5 punti percentuali nell’arco di poche ore o giorni.
Sono le reazioni tipiche dei bassissimi volumi, quelli che consentono anche ai movimenti di trading minimi di creare veri e propri tsunami: il problema è che non si tratta più di un fenomeno limitato ad alcuni giorni particolari dell’anno, è la normalità. La nuova normalità, il new normal invocato pochi giorni fa nella sua rubrica su Bloomberg dall’ex re dell’obbligazionario, Mohamed El-Erian. Per questo motivo, come vedete tecnico e pratico, non politico o interpretativo, sono convinto da sempre che una nuova ondata di stimolo sia obbligata visto il mondo post-2008 in cui abbiamo vissuto finora, pena una disconnessione epica dei mercati, roba davvero spartiacque come il 1929.
Resta il quesito di fondo di cui vi ho parlato anche ieri: chi cederà per primo nel chicken game, chi abbandonerà per primo la politica di contrazione e tornerà all’espansione monetaria? La Fed o la Pboc cinese? E la Bce si limiterà, potrà davvero limitarsi al reinvestimento in toto dei bond in detenzione, quasi certamente operando uno swap a favore di scadenze più lunghe per garantire uno scudo anti-spread, oppure dovrà andare oltre? E per oltre intendo oltre anche alle aste di rifinanziamento bancario a lungo termine (Ltro), visto che queste le ritengo già certe fin da ora, al più tardi per la primavera prossima.
Fattibilità politica alla mano, viene da ritenere che sia più facile un ammorbidimento delle condizioni del credito da parte della Pboc, non fosse altro per il sovrano disprezzo che le autorità cinesi hanno dell’opinione pubblica: di fatto, fanno ciò che vogliono e chi non è d’accordo può accomodarsi in carcere o al confino. Ma, sempre come vi ho detto ieri, la fragilità percepita della politica Usa di questo periodo, potrebbe indurre l’orgoglioso Xi Jinping a forzare la mano, tirando la corda fino all’estremo della resistenza, fino all’ultimo filo. Gioco rischiosissimo. Non tanto per la Cina e nemmeno per gli Usa, visto che se anche la Fed vorrà salvare le apparenze e non annuncerà ufficialmente il Qe4, il modo per aumentare silenziosamente il suo stato patrimoniale lo troverà di certo, non ultimo il back-door funding dei fidati primary dealers che operano sui mercati per suo conto, più o meno segretamente (ovvero, piazzando debito pubblico alla luce del sole e comprando equities nell’ombra, agendo sotto le mentite spoglie del Plunge Protection Team voluto da Ronald Reagan proprio per proteggere Wall Street dai tonfi).
Ma l’Europa, divisa, litigiosa, senza una politica fiscale comune, né un’unione bancaria e alla vigilia di elezioni che possiamo definire storiche e drammatiche allo stesso tempo, cosa farà? Come affronterà la prossima recessione alle porte, se la sua stessa storica locomotiva, la Germania, appare già con il tasso di crescita in contrazione ufficiale? Attenzione a sbagliare la diagnosi, perché in quel caso l’unica alternativa sarebbe quella del dottor Frankenstein e della rianimazione di un cadavere. Lo spiegate voi a quei fenomeni dei cosiddetti sovranisti? O, forse, non ne vale la pena. Perché con ogni probabilità la loro missione, più o meno consapevole, è proprio quella di giungere a quell’epilogo catacombale per l’Europa.