Dopo il “crollo” delle borse di giovedì, scatenato dal profit warning di Apple, ieri abbiamo avuto il rimbalzo. Su queste amene vicende dovremmo tutti adottare un approccio più “filosofico”. La discesa delle borse, diciamo del quarto trimestre 2018, è la più telefonata che la nostra purtroppo già pluridecennale memoria ricordi. La sovravalutazione di un mercato sostanzialmente fatto da una manciata di titoli (le mitiche Faang) è stata smascherata a una platea abbastanza grande di investitori almeno dal secondo trimestre 2018: un anno che per i primi sei mesi ha beneficiato dell’onda lunga del mega stimolo fiscale di Trump. Poi sono arrivati i dazi contro la Cina, i timori sull’eurozona dalla Brexit al debito italiano passando per i gilet gialli, fino ai toni ormai da vera e propria guerra fredda tra Cina e Usa. Lo scenario in cui tutto questo avviene, l’elefante nella stanza, è l’onda lunga della crisi 2007/2008 e delle politiche monetarie successive che hanno dato via al più grande esperimento di immissione di liquidità della storia. È talmente colossale che nessuno ne parla.



Fatta questa premessa dovremmo tutti fare un respirone rispetto a quello che potrebbe succedere nelle prossime settimane. Il fatto che, come si è notato acutamente e giustamente su queste pagine, ci siano molti, oggettivi e seri elementi di preoccupazione può voler dire tutto o niente sull’andamento delle borse delle prossime settimane. E noi volentieri ci esimiamo da previsioni limitandoci a qualche osservazione. Siccome abbiamo avuto un paio di mesi oggettivamente tremendi, uno dei peggiori mesi di dicembre di sempre per i mercati azionari, siccome la situazione presenta molte incognite è persino possibile che le “borse vadano” bene nelle prossime settimane. Non è che siamo ottimisti sui “fondamentali”, ma semplicemente è perfettamente possibile che di fronte a uno scenario che sembra in avvitamento si assista a un coordinamento delle banche centrali che raddrizzi la barra ed eviti, almeno per ora, un “crash” che peserebbe da subito. Lo scontro politico negli Stati Uniti è massimo tra minacce di impeachment e colpi bassi o bassissimi un giorno sì e l’altro pure, con un livello di conflittualità impressionante. Se ci sia o meno un disegno non lo sappiamo, ma registriamo i fatti al loro valore “facciale”.



In Europa abbiamo diversi focolai. Il rischio Brexit è uno; non sappiamo come finirà, ma nel livello di caos attuale può succedere di tutto. Più il caos intraeuropeo aumenta, più gli inglesi si faranno una ragione delle conseguenze, sicuramente nefaste, di un’uscita pur di uscire da un progetto oggettivamente fragile e oggettivamente dominato da un nemico almeno secolare come la Germania. Poi abbiamo l’Italia. Ci torniamo, ma la fragilità del “debito” è nella sostanza una fragilità della crescita economica che, non ci interessano per ora le cause, l’Italia non riesce a rilanciare da almeno due decenni. Poi abbiamo i gilet gialli. Sullo sfondo rimangono le elezioni europee che rappresentano uno spartiacque visto che per la prima volta si presentano in forza movimenti sovranisti e populisti.



A questo proposito ci chiediamo se le istituzioni europee, le sole che possono accendere o spegnere i focolai di volatilità, abbiano interesse a una campagna elettorale in piena crisi finanziaria o dei debiti sovrani oppure no. L’Europa non scalda i cuori dei suoi cittadini, visto che finora è stato un progetto calato dall’alto a volte usato per farsi la guerra, però può presentarsi come la soluzione ai problemi. In effetti è così perché le istituzioni europee hanno un grado di ricattabilità massimo, soprattutto sui Paesi più fragili, come l’Italia, e sono fisicamente le uniche che possono fare qualcosa. Dal 2019 la Bce avrà discrezionalità massima nell’uso della liquidità emessa. L’esempio massimo del ruolo delle istituzioni europee è lo spread italiano che vive e respira al ritmo della conflittualità o meno con l’Europa e in modo evidente dal 2010. Esattamente come non credevamo che un deficit ridicolo, fatto in surplus primario, potesse “scatenare” l’impennata dello spread, oggi non crediamo che la sua discesa sia dipesa dalla stima che il mercato ha dell’ultima finanziaria. Figuriamoci se uno zero virgola di deficit sposta variabili che riflettono i fondamentali più profondi di un’economia.

L’Italia ha scelto di obbedire all’Europa spaventata per quanto si stava dipanando. D’altronde l’unica vera arma negoziale è l’uscita dall’euro o una sua minaccia credibile con tutte le conseguenze economiche e di opinione pubblica del caso. Altrimenti si deve sempre fare buon viso a cattivo gioco e muoversi, intelligentemente, dentro le regole europee. Oggi quindi potremmo persino entrare in un clima in cui c’è talmente tanto di cui aver paura che si preferisce, per il momento, nascondere i problemi sotto l’ormai usuratissimo tappeto delle banche centrali. Ma sappiamo per certo, nel 2019, che quella coperta non risolve i problemi veri e forse ne presenta di nuovi. Questo vale sia per l’economia americana, sia per la guerra fredda con la Cina, sia per l’Europa che per l’Italia.

Lo spread può anche scendere e le banche italiane possono continuare a fare carry trade usando i guadagni per scaricare sofferenze, ma sul tavolo rimangono i problemi. Per l’Europa sono quelli di istituzioni palesemente inadeguate, di squilibri politici ormai innegabili che rendono la costruzione o molto fragile oppure un mostro in cui i forti passano sopra ai deboli rimasti senza alcuna arma negoziale, come ha lucidamente spiegato in più di un’occasione quel sovranista di Soros e molti altri pensatori che con i sovranisti di oggi non hanno niente a che fare.

Per l’Italia il problema è come crescere, se possibile, dentro l’Europa, perché cinque anni di tassi ridicoli per tante ragioni, tra cui, secondo noi, la scelta suicida di deficit troppo bassi, non hanno rilanciato la crescita. E per la cronaca al governo non c’erano né Salvini, né Di Maio che magari ne hanno fatte di cotte e di crude, ma che per esempio ci paiono incolpevoli sull’ultimo caso Carige. Se l’Italia non vuole farsi travolgere e l’Europa pure, forse è il caso di immaginare una politica economica che vada al di là delle pure necessarie misure della Bce e per questo ci vuole tanta buona politica. Visto quello che si prospetta non per i prossimi cinque mesi, ma per i prossimi cinque anni, sull’asse New York-Pechino, sarebbe il caso di mettere da parte quella dinamica conflittuale intraeuropea, per cui le debolezze altrui diventano occasioni per altri, che ha distrutto l’Europa.

L’Italia dovrebbe chiedersi, vista la situazione di subordinazione, quale siano le condizioni della sua permanenza in Europa, quali i dazi da pagare e quali, se ce ne sono, le alternative. Speriamo tutti che l’Europa cambi, ma se non cambia un paio di riflessioni dovremmo farle; per esempio, fino a che punto si debba combattere un federalismo che serve all’Italia, ma ancora di più a un’Italia dentro l’Europa se non si vuole il caos.