Ora c’è l’ufficialità: signori, la Fed si ferma. Non che la cosa mi abbia colto di sorpresa, ovviamente. Ma al netto dei trimestri interi in cui vi ho spiegato i motivi per cui la Federal Reserve, ottenuto il risultato di mandare fuori giri il mercato, non potesse continuare oltre, ora si apre davvero uno scenario interessante. Di fatto, un quadro di intervento che si era delineato con l’inizio dell’autunno, quando la narrativa degli unicorni al potere cominciava a perdere di consistenza. Era infatti il 23 ottobre scorso, un martedì, quando Bank of America pubblicava un grafico che tradiva i reali timori e la portata delle preoccupazioni del mercato di fronte al tracollo dei titoli tech che stava proseguendo da giorni sul Nasdaq.
Mostrava le risposte dei 200 gestori di fondi mensilmente consultati dalla banca d’affari per il suo sondaggio sul sentiment rispetto a quello che immediatamente fu ribattezzato Powell put: ovvero, a quale livello di calo dovrà arrivare lo Standard&Poor’s 500 prima che la Fed blocchi il suo programma di rialzo dei tassi? All’epoca l’indice-spia newyorchese era in area 2650 punti e la media dei rispondenti all’epoca disse 2390 punti. Bene, prima degli 84,05 punti guadagnati nella seduta record del 4 gennaio, lo S&P’s 500 era a 2447,89. E per essere più precisi, prima che Jerome Powell prendesse a sorpresa la parola per un lungo e per certi verso clamoroso voltafaccia rispetto a quanto espresso dal Comitato monetario della Federal Reserve (Fomc) solo il 18 dicembre scorso, l’indice era a quota 2477 come mostra il grafico, già sospinto al rialzo dal dato record dei nuovi occupati nel mese di dicembre (+312mila contro e attese di 176mila) e dalla notizia che il 7 e 8 gennaio una delegazione statunitense si recherà a Pechino per incontri relativi al commercio. Ovvero, per cercare di chiudere – onorevolmente per tutti – la disputa su dazi e tariffe.
È bastato che il numero uno della Fed parlasse, proprio relativamente al dato occupazionale, di un outlook inflazionistico che al momento non creava preoccupazioni per spingere l’indice a 2518 punti. Poi, la marcia trionfale ha potuto avere inizio. Sospinta da queste parole: “Come sempre, non esiste un percorso predefinito per quanto riguarda la politica della Federal Reserve. E, in modo particolare, con le mutate letture del dato inflazionistico che abbiamo visto approssimarsi, saremo pazienti e vedremo come evolvono le condizioni di mercato”. Tradotto, stop ai rialzi dei tassi, a partire da quello di marzo. Ma c’è di più, perché la frase che maggiormente ha agitato gli animal spirits e consentito il rimbalzo record di Wall Street è stata la seguente, forse troppo tecnica e poco mediatica per guadagnare le prime pagine: “Non esiteremo a cambiare il piano di riduzione dello stato patrimoniale (della Fed, ndr), se questo stesse causando problemi”. Insomma, non soltanto si arresterà il processo di normalizzazione del costo del denaro, ma, cosa più importante nell’immediato per placare la volatilità dei mercati e arrestare i tonfi, il 2 di gennaio potrebbe essere stata la prima e anche ultima volta in cui la Fed ha operato la vendita di titoli detenuti e arrivati a scadenza, drenando così dal mercato la tanto necessaria e agognata liquidità.
E il piano di redemptions approvato dal Fomc parlava chiaro: fra Treasuries e Mbs, ogni mese fino al dicembre 2019, la Banca centrale avrebbe direttamente drenato dal mercato qualcosa come 36,2 miliardi di dollari di liquidità e con il prossimo appuntamento atteso già per il 16 gennaio con i suoi 18,3 miliardi di controvalore in Mbs. Con ogni probabilità, verrà quantomeno sospeso. O rimandato. Insomma, Wall Street ha avuto ciò che voleva. Donald Trump anche. La domanda ora è, basterà tutto questo?
Il grosso rischio, infatti, è sovrastimare i messaggi che giungono dalla Cina. Al netto della missione diplomatica a Pechino, tutti sanno che il Nasdaq e le mitiche Fang che ne hanno retto finora le sorti, traballano a ogni stormir di fronda per lo status di bolla conclamato in cui si trova l’indice tecnologico, dopo anni di espansione forzata e sconnessa dai fondamentali dei multipli di utile per azione e di buybacks di massa – di cui Apple è stata campione, con oltre 60 miliardi di controvalore di titoli riacquistati nei primi tre trimestri del 2018 – che hanno tenuto artatamente e artificialmente alte le quotazioni e basso il flottante. Ecco che, quindi, un calo della domanda cinese, ampiamente preventivato e preventivabile, stante il chiaro rallentamento dell’economia del Dragone non certo da ieri, si tramuta in un disastro epocale capace di far sbandare non solo Wall Street, ma gli indici di tutto il mondo per, di fatto, 3 miliardi in meno di utili previsti. Un primo test potrebbe non essere distante. Anzi, potrebbe essere alla porta. A mettere il turbo agli indici prima che Jerome Powell aprisse bocca, infatti, ci aveva pensato il combinato disposto di riapertura del dialogo sul commercio e annuncio della Banca centrale cinese (Pboc) di taglio dei requisiti di riserva obbligatori per le banche, un punto percentuale di allentamento che si sostanzierà in oltre 100 miliardi di dollari di liquidità in circolazione in più.
Per molti analisti – oltre che per gli algoritmi che governano Wall Street – il chiaro segnale che la Cina, a fronte della contrazione dell’indice manifatturiero appena resa nota, ricomincia a stimolare l’economia con offerta monetaria. L’impulso creditizio di Pechino starebbe per tornare, il bancomat del mondo a livello di liquidità per i mercati finanziari, è di nuovo in funzione. Attenzione però a mal interpretare questa mossa. Per due motivi.
Primo, il taglio dei requisiti sarà di mezzo punto percentuale l’uno il 15 e il 25 gennaio prossimi, il tutto per operare un controbilanciamento della maggiore richiesta di liquidità legato al Capodanno lunare cinese che cade in quel periodo. Insomma, di fatto si tratta di un’operazione quasi tecnica di business as usual monetario. Il bancomat torna attivo, ma la liquidità inserita al suo interno, è contata. Secondo, ce lo mostra questo grafico di Goldman Sachs relativo al suo Current Activity Indicator, il quale mette in guardia dal fatto che operazioni di allentamento fiscale come quella appena annunciata sono accadute più volte nel recente passato e nessuna ha contribuito a un reale e materiale supporto all’attività economica. Di fatto, non è un Qe strutturale, né un suo prodromo in sedicesimi.
Così Goldman conclude il suo commento al riguardo: “Ci sono ragioni di essere preoccupati per il fatto che quell’allentamento stia diventando sempre meno efficace”. Come dire, non commettiamo l’errore di pensare che a togliere definitivamente le castagne dal fuoco alla sete di liquidità dei mercati siano le autorità cinesi. E, implicitamente, un avviso a Jerome Powell: paradossalmente, il già clamoroso voltafaccia compiuto potrebbe non bastare. Tradotto, la Fed potrebbe essere costretta non solo a bloccare rialzi e redemptions, ma anche a stimolare direttamente l’economia. E, come vi avevo spiegato nel mio articolo di sabato scorso, Goldman ha parlato in effetti niente più che la lingua del mercato, quando avanzava questa previsione.
Se infatti il giorno prima che Jerome Powell parlasse, il mercato euro-dollaro prezzava per la prima volta la possibilità (al 7% dallo zero assoluto fino a fine ottobre) di un taglio dei tassi da parte della Fed già nella riunione di marzo, i futures dei Fed Funds addirittura davano la possibilità di una sforbiciata al costo del denaro al 30%. Inutile dire che, dopo i commenti del capo della Federal Reserve, quelle percentuali siano salite ulteriormente. Che sia l’irrigidimento dello shutdown federale in atto, già minacciato esplicitamente da Donald Trump, a portare ulteriore materiale da precedente storico in casa Fed?
Una cosa è certa, senza che sia necessario avere un PhD in economia per intuirlo. Se con dati occupazionali come quelli appena diffusi negli Usa, la risposta della banca centrale è il blocco della processo di normalizzazione del costo del denaro, qualcosa non torna. E, in effetti, il fatto che i posti di lavoro raddoppino le attese in contemporanea con il peggior calo su base mensile dell’indice manifatturiero Ism dall’ottobre 2008 (9 punti) e con quanto ci mostra questo ultimo grafico, ovvero il dato di licenziamento nel comparto strategico delle costruzioni che non solo a novembre è stato maggiore dei 15 mesi precedenti messi insieme, ma addirittura il peggiore da quando viene tracciata la serie storica (ottobre 2006), fa sorgere qualche dubbio.
A Wall Street, nel frattempo, si festeggia questa anomalia. Ma per quanto? Ora, il gioco si fa davvero interessante. E ancora più pericoloso, perché il copione cominciato con l’insediamento alla Casa Bianca del capro espiatorio perfetto, pare finito. Ora si recita a soggetto. E improvvisando, temo.