In un’Unione europea in cui una proporzione sempre più vasta di elettori ritiene che il continente sia caratterizzato da crescenti disparità non solo di risultati ma di opportunità, la risposta dei partiti e dei movimenti europeisti non può limitarsi a declinare, come fanno i pamphlet della Commissione europea, che “l’Europa vanta il miglior sistema di protezione sociale al mondo e si posiziona tra i primi per la qualità della vita e il benessere, ma allo stesso tempo si trova ad affrontare gli effetti della crisi, che si fanno ancora sentire in molti Stati membri”. D’altronde la stessa Commissione ammette che in seguito alla crisi iniziata nel 2008, “le disparità sociali all’interno dell’Unione persistono nonostante i segnali di ripresa” e che il tasso di disoccupazione è “elevato ma in generale diminuzione” e che “l’invecchiamento demografico e i profondi cambiamenti del mercato del lavoro costituiscono una sfida per l’Ue”. Entro il 2030 i cittadini europei saranno tra le popolazioni più anziane del mondo e le basse percentuali di natalità mettono alla prova la sostenibilità dei sistemi di welfare, mentre il progresso tecnologico, la globalizzazione e la crescita del settore dei servizi hanno portato a una trasformazione del mondo del lavoro, che si riflette nella crescita dell’economia di condivisione e delle sue forme di impiego più flessibili.
È senza dubbio vero che la dimensione sociale dell’Ue si è sviluppata progressivamente, ma lentamente, durante tutto il processo di integrazione europeo con la creazione di leggi, fondi e strumenti comunitari per coordinare e monitorare le politiche nazionali e che l’Ue ha sempre incoraggiato gli Stati membri a condividere le proprie strategie in settori quali l’inclusione sociale, la povertà e le pensioni. Da un canto, però, le competenze dell’Unione in campo sociale sono limitate e sono i Governi nazionali ad avere un ruolo principale in materia lavoristica e sociale. Da un altro, negli ultimi trent’anni l’attenzione delle politiche europee è stata sull’integrazione monetaria e finanziaria, non sul sociale.
La campagna per le prossime elezioni europee costituisce un’occasione non tanto per dare preminenza alla dimensione sociale dell’Ue, nella costruzione dell’integrazione europea, quanto per proporre misure concrete di integrazione nel sociale. In un recente seminario a Washington, Edward Luce, editorialista di The Financial Times, ha lanciato un vero e proprio allarme: senza azioni in questo campo si mettono a repentaglio le stesse democrazie occidentali.
Il Premio Nobel Edmund Phelps della Columbia University e Gylfi Zoega del Birbeck College dell’Università di Londra, nel loro ultimo lavoro (Values, Institutionz and the Rise of Eastern Europe in Economics of Transition and Insitutional Change, pp. 247-265, primo fascicolo del 2019) sottolineano, con una rigorosa analisi quantitativa relativa a 37 Paesi europei nel periodo 1999-2014, che, nel sociale, i Paesi che hanno avuto la maggiore convergenza (rispetto alla Repubblica federale tedesca) sono quelli dell’Europa centrale e orientale; tale “convergenza” non viene rivelata unicamente da una maggiore partecipazione al mercato del lavoro e da una migliore soddisfazione in impiego, ma anche da un avvicinamento dei “valori sociali”. È uno studio su cui riflettere,
La materia è complessa perché nell’Ue i welfare systems (previdenza, assistenza, sanità, politiche del lavoro) appartengono a famiglie con lunghe tradizioni storiche molto differenti le une dalle altre: dal modello “universalistico” alla Beveridge, al modello particolaristico-occupazionale delle assicurazioni sociali alla Bismarck, ai modelli corporativi dell’Europa meridionale. In Italia la transizione del modello particolaristico-occupazionale, mutuato da Germania e Francia, verso un modello universalistico, è iniziata cinquanta anni fa ed è ancora lontana da essere compiuta. Ci sono, però, percorsi, non velocissimi, che si sono interrotti e vale la pena riprendere. Ad esempio, una decina di anni fa la Fondazione Fare Futuro italiana e la tedesca Konrad Adenauer Stiftung organizzarono un serie di seminari tra docenti e ricercatori delle due istituzioni e un seminario di tre giorni alla residenza estiva di Adenauer (Villa Collina sul Lago di Como) che portarono a una serie di volumetti, editi da Rubettino nelle due lingue (italiano e tedesco), su come avvicinare i sistemi politici e sociali. Sono libretti agili e densi di proposte, un punto da cui ripartire.
Ci sono, però, almeno due misure che possono essere contemplate per la prossima legislatura europea: a) un’assicurazione europea contro la disoccupazione (tanto più necessaria perché man mano che le giovani generazioni operano in un mercato del lavoro europeo le tutele e le politiche attive dei singoli Stati dell’Ue diventano sempre meno rilevanti) e b) una base comune previdenziale per l’Ue che sostituisca gradualmente la complessa ragnatela di accordi bilaterali – ciò è reso possibile man mano che un numero sempre maggiore di Stati adotta un sistema “contributivo” per il calcolo delle spettanze. In materia già nel 2003, a un seminario internazionale nell’isola di Sandhamn nell’arcipelago di Stoccolma, venne prefigurato da un gruppo internazionale di esperti, la convergenza dell’Ue verso un sistema previdenziale contributivo, integrato da un mercato unico dei fondi pensione.
A queste misure dense di contenuti si potrebbe aggiungere una misura simbolica: un contributo europeo di trenta-quaranta euro al mese al 15% della popolazione dell’Ue in povertà estrema. Un modo per fare loro sentire che l’Ue non è un’entità astratta. La vera sfida è come rimettere in modo l’ascensore sociale, problema non solo italiano, ma di numerosi Stati dell’Ue. Un primo passo potrebbe essere riavviare e potenziare il programma europeo contro l’esclusione sociale, lanciato una ventina di anni fa, con il supporto dell’Italia, e che pare essersi perso per strada.