Attenzione a derubricare l’attacco di Guy Verhofstadt ad Antonio Conte a ennesima alzata d’ingegno di un provocatore nato, saltimbanco del politicamente corretto che ormai a Bruxelles viene trattato come gli ubriaconi che raccontano storielle al bar. Stavolta non è così. Per il semplice fatto che il leader dei liberali europei non ha attaccato Conte per amore dell’Italia e per un moto di dolore per la degenerazione politica che l’attanaglia, come ha pateticamente spiegato ai giornalisti dopo la sparata all’Europarlamento. Lo ha fatto per quanto vi ho detto pochi giorni fa: il 5 febbraio, giorno dello spostamento strategico (per il Governo) del ministro Paolo Savona alla presidenza della Consob e dell’assunzione dell’interim europeo da parte dello stesso Giuseppe Conte, è cambiato tutto. È cambiato l’assetto della politica comunitaria italiana, un qualcosa che sta disturbando parecchi manovratori, a cui un’Italia da Don Chiosciotte da operetta contro l’Ue faceva terribilmente comodo. E intendo manovratori nazionali, europei e anche intercontinentali.
Volete un esempio di queste ore? Il sacrosanto ricorso presentato dal Governo italiano, nella persona del ministro degli Esteri, il redivivo (da quando Conte ha preso il timone, altra coincidenza) Moavero Milanesi, alla Corte di Giustizia Europea rispetto all’assegnazione della sede dell’Ema, l’Agenzia europeo del farmaco, ad Amsterdam e ai danni di Milano, dopo uno scandaloso sorteggio. Questioni concrete, business e occupazione, non elucubrazioni da politeia e avventurismi da piani B. Sia ringraziato il Signore. Il tutto, senza scordare il messaggio tutt’altro che in codice, ma, anzi, istituzionale e molto palese, rappresentato dalla telefonata di disgelo fra il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ed Emmanuel Macron. Ma la sparata di Verhofstadt temo sia solo l’aperitivo di quanto attende il nostro Paese da qui all’appuntamento di fine maggio con le europee, quindi occorre tenere i nervi saldi. E, soprattutto, la mente lucida nel giudizio.
L’ordine è chiaro, quasi di scuderia: Giuseppe Conte va delegittimato nella sua nuova veste, va dipinto come “burattino” nelle mani di irresponsabili sovranisti/populisti agli occhi delle opinioni pubbliche, va depotenziato sul nascere, negandogli – come negli anni Settanta con i missini – ogni agibilità politica per manifesta inaffidabilità “da contatto” con i suoi vice-premier e azionisti di maggioranza. Altrimenti, fra elitarismo paludato della burocrazia europea da un lato (Francia in testa) e avventurismo sovranista, potrebbe nascere una terza via del buon senso. Un qualcosa che darebbe fastidio a troppi, americani e cinesi in testa. Pensateci. Emmanuel Macron ha di fatto vinto la sua battaglia creata in laboratorio, al pari della sua elezione all’Eliseo, contro i gilet gialli, visto che sabato scorso in tutta la Francia erano in piazza in meno di 12mila. Non a Parigi, in tutto il Paese. Praticamente, polverizzati in mille correnti una contro l’altra per sete di rappresentanza e sempre più distanti dal Paese reale che dicono di rappresentare. Non a caso, in ossequio al lobbysmo più puro.
Nessuno dei gilet gialli ha infatti aperto bocca sul fatto che il 1 febbraio in Francia sia entrata in vigore – senza alcuna deroga, né moratoria temporale – la cosiddetta Loi alimentaire, legge che vieta la vendite sottocosto e le offerte speciali che superino il 30% di sconto (ovvero, addio al paghi uno e prendi due) alle grandi catene di distribuzione, di fatto un colpo mortale al potere d’acquisto dei cittadini, pari a un aumento dell’Iva per indiscriminatezza dei bersagli colpiti e con rincari da un minimo dello 0,60% al 9,90%. E perché non l’hanno fatto? Perché il Governo ha venduto quella legge come provvedimento di tutela dei produttori e coltivatori francesi, costretti dalla grandi catene a vendere a prezzi sempre più bassi i propri prodotti. Vi ricorda qualche situazione in atto anche in Italia, casualmente in una Regione dove a fine mese si vota per le amministrative?
Ovviamente, lo Stato francese fa cassa da quegli aumenti – i quali riguardano oltre 3.700 prodotti di largo consumo -, ma i presunti paladini del “francese medio” affamato dall’establishment, tacciono. Perché si sa che la lobby agricola in Francia è potentissima e i suoi sindacati di categoria hanno sospeso il giudizio sulla legge, annunciando che prenderanno posizione dopo che il Governo avrà detto la sua a Bruxelles in tema di sussidi agricoli all’interno del Budget in discussione. Ovvero, il boccone vero, gli aiuti comunitari all’agricoltura. Della serie, “tu facceli avere e nessuno protesterà in piazza”. Capito i Robespierre?
E la Spagna? Domenica scorsa erano in migliaia in piazza a Madrid insieme al centrodestra e contro il governo Sanchez, il quale oggi potrebbe gettare del tutto la spugna. Mentre scrivo, infatti, il Parlamento spagnolo ha appena bocciato i Presupuestos, ovvero la legge finanziaria del Paese e lo ha fatto sotto il peso di quintali di emendamenti, uno dei quali risultato fatale, avendo ottenuto 191 sì e 158 no. E sapete da parte di chi? Di Podemos e dei due partiti autonomisti catalani, ovvero proprio coloro che garantivano al socialista Sanchez di restare in sella con un governo di minoranza, “forte” del suo 10%.
Il primo contestava l’impianto pauperista e redistributivo della Legge, soprattutto il reddito minimo a 900 euro e l’aumento delle tasse per chi guadagna più di 130mila euro all’anno, mentre i secondi volevano il riconoscimento di una figura istituzionale di raccordo fra Madrid e Barcellona, oltre a di fatto alla promessa di un nuovo referendum, riconosciuto questa volta dal governo centrale. E il buon Sanchez, fino alla manifestazione di domenica del Pp a Madrid, aveva anche ceduto, dando vita alla figura del relator: poi, capito che l’unica speranza è ormai solo quella di salvare la faccia in vista di un nuovo voto a metà aprile, ha chiuso ogni mediazione. E i catalani hanno presentato emendamenti comuni in grado di bloccare la Manovra: senza la quale, l’esecutivo è costretto al cambio di maggioranza (impossibile) o alle dimissioni.
Mentre leggete il mio articolo, probabilmente la Spagna starà per entrare ufficialmente in campagna elettorale. Pericolosamente a ridosso delle elezioni europee. Tu guarda le causalità, un bella ragione di tensione in più che potrebbe trasformarsi facilmente in alibi per armare la mano di Mario Draghi il prossimo 7 marzo, al board della Bce: chissà come mai i catalani hanno deciso di alzare la posta in questo modo proprio ora, di colpo, a ridosso dell’inizio del processo contro i loro leader accusati di alto tradimento e del voto sulla Finanziaria, invece che provare a mediare e intavolare una trattativa a tempo debito?
E il Brexit? Oggi, giorno di San Valentino, doveva rappresentare quello della 1273ma deadline definitiva per il voto di Westminster sulla nuova proposta di accordo per l’uscita dall’Ue che Theresa May è tornata a negoziare lo scorso giovedì a Bruxelles. Niente di fatto, ovviamente. Anche perché l’Ue, giustamente, attende l’ultimo momento utile per trovare un accordo, tutto a suo favore e con l’Irlanda che vede all’orizzonte il sogno di riunificazione di Michael Collins e Eamon De Valera: hanno voluto il Brexit senza avere un serio piano per attuarlo? Hanno voluto tirare la corda fino all’ultimo, minacciando il no deal? Ora paghino il prezzo alla loro alterigia post-imperiale degna di miglior causa.
E cos’ha fatto martedì Theresa May di fronte al Parlamento? Ha sposato la strategia delle Banche centrali: calciare in avanti il barattolo, sperando nel miracolo. Ha chiesto altro tempo, di fatto rimandando il voto e fissando questa volta il nuovo termine definitivo al 26 febbraio. Preparatevi a un nuovo rinvio. Anche perché, signori, in punta di realismo 26 febbraio significa un mese e tre giorni dalla data di addio: se anche si raggiungesse un accordo e Westminster lo approvasse, pensate che si possa porlo operativamente in essere in 30 giorni, dopo la pantomima solo procedurale durata quasi due anni? Non siamo ridicoli, per favore.
C’è però un problema: avete sentito i tg, i nostri tg, dare degnamente conto di tutto quanto vi ho raccontato finora? E i nostri quotidiani, hanno riportato con enfasi quanto appena ricordato? No, perché l’Italia è in guerra permanente con se stessa. E presta il fianco al nemico. Che non è l’Europa e nemmeno l’Ue in sé, ma chi utilizza le istituzioni europee come totem dietro il quale nascondere i propri interessi da preservare, in modo da avere sempre pronta l’accusa di iconoclastia anti-europeista per chi osa voler tutelare un pochino anche i propri. Pensateci: quando l’Italia deve inviare una risposta scritta a Bruxelles su un singolo provvedimento o una delucidazione del Def, l’attesa – sui media italiani – amplifica il clima ansiogeno che i nostri competitor spargono strumentalmente a piene mani nell’aria. Sembra che il conto alla rovescia verso l’armageddon. Quando invece la Gran Bretagna continua a prendere tutti in giro, facendo saltare una data dopo l’altra per la votazione definitiva su una materia che tiene strutturalmente e statutariamente in scacco 28 Paesi, allora trattasi del sale delle democrazia, della necessità di approfondire, del bello del dibattito democratico.
(1- continua)