“Sagrestia, censore, governatore, direttorio”, termini utilizzati nello statuto e nel regolamento di Banca d’Italia danno l’idea di quanto sia obsoleta la struttura di quello che era l’istituto di emissione della nazione. Insieme ai privilegi associati – non ultimi i compensi e le pensioni – le norme che la regolano attualmente sono il motivo della sua debolezza di fronte agli attacchi apparentemente disordinati del Governo. L’uno/due sferrato in questi giorni colpisce con forza nei suoi punti deboli: la governance e lo stato giuridico delle riserve.



La legge di riforma del 2015 e la sua applicazione hanno definitivamente creato un mostro – nel senso etimologico di organismo risultante da una contaminazione innaturale di elementi diversi che suscita stupore od orrore. Banca d’Italia non è più la banca centrale, dal momento che la produzione e il controllo della circolazione monetaria sono stati delegati a terzi a seguito dell’adozione dell’euro. L’attività economica svolta, con costi altissimi – circa 2 miliardo l’anno -, ma con utili importanti, fa riferimento a una compagine societaria di banche e organizzazioni finanziarie private con obiettivi diversi da quelli pubblici, e attualmente non del tutto chiari per alcuni.



Per quale motivo le funzioni di vigilanza, in altri ambiti assegnati ad autorità indipendenti, restano incardinate a questa organizzazione? E possono definirsi indipendenti relazioni, studi e valutazioni da essa svolti con il supporto di un pur ottimo centro studi? Così è diventato possibile disconoscere le giuste riflessioni sull’economia del vicedirettore Signorini e arrivare a pretenderne la testa, con la motivazione che comunque la vigilanza sulle banche venete fosse stata inadeguata.

D’altra parte, il governatore, che si dovrebbe meglio chiamare l’amministratore delegato, e il Consiglio d’amministrazione – che però si definisce “superiore” – non possono nominare i vicedirettori senza ottenere il consenso di ministri, e infine l’approvazione del capo dello Stato. Resta il braccio di ferro istituzionale, alla ricerca di una mediazione politica che, da tempo immemore, in Italia significa uno scambio. Forse legittimo, ma di dubbio interesse generale.



E veniamo al patrimonio, fra cui l’oro, che garantisce ai soci privati un rendimento senza rischi del 4,5%. Perché questa ricchezza, pur essendo stata costituita dallo Stato, viene gestita da un’organizzazione che non risponde direttamente a esso? L’indipendenza della Banca centrale invocata da molti non è argomento pertinente: è quella europea la nostra banca centrale! Ma avendo mescolato ruoli e poteri, nonché la storia, non si riescono a fare i corretti distinguo fra patrimonio posseduto e riserve necessarie a svolgere i compiti richiesti dalla partecipazione al sistema bancario europeo che prevedono limitati impegni patrimoniali e alcune regole gestionali – ad esempio, vendite limitate e notificate ai partner.

La proposta Borghi è quindi il secondo colpo correttamente assestato. Non è contro lo Stato, ma contro il pasticcio creato modificando l’assetto proprietario senza ridefinire statuto e funzioni di Banca d’Italia e dettare regole per la transizione. Oggi, la sola approvazione della legge sostenuta da Salvini può avere un mero effetto propagandistico, lasciando invariata la sostanza, ovvero la pratica indisponibilità del patrimonio, e in particolare dell’oro. Si noti: non sono riserve auree. In effetti nessun vincolo grava sulla maggior parte delle 2.500 tonnellate: com’è scritto sul sito ufficiale, servono genericamente a sostenere la credibilità della moneta unica. L’obbligo comunitario è stato già soddisfatto con il conferimento a suo tempo alla Bce di 150 tonnellate. Quindi, al momento è un servizio fornito all’Europa senza contropartita.

Se l’obiettivo dei tre premier è dare agli italiani il controllo di questo speciale asset patrimoniale e non trovare un escamotage per coprire eventuali falle nel bilancio, si impone la modifica dello Statuto e la scissione della banca in funzione dei diversi ruoli. Una legge deve regolamentare proprietà, controllo e utilizzi potenziali dell’oro posseduto, oltre a rimettere ordine nella sua gestione fisica.

Infatti, oggi oltre la metà dei lingotti si trova, senza che ne siano noti i termini della custodia, all’estero, e ben 1.100 tonnellate (stessa quantità presente in Italia) sono negli Usa – altre 149 sono in Svizzera e 141 nel Regno Unito -, o almeno così dichiara il sito della Banca d’Italia. E se “pecunia non olet” di certo l’oro profuma ancora di meno se nessuno ne reclama la proprietà.

P.S.: L’immediata verifica delle consistenze estere, la pubblicizzazione dei contratti/accordi di deposito e un’indagine sull’utilizzo da parte dei depositari nel corso degli anni sarebbe la risposta appropriata da parte di Visco che, fra l’altro, potrebbe avviare le procedure per riportare in patria qualche tonnellata d’oro. Almeno per vedere l’effetto che fa.