Le polemiche degli ultimi giorni intorno al livello dei salari in Italia forniscono lo spunto per il fare il chiaro intorno a una questione molto delicata e altrettanto dibattuta e fortemente condizionata da un assunto di base sbagliato, ma preso per vero anche da persone di solito bene informate. La contesa nasce dalla considerazione che i 780 euro del Reddito di cittadinanza possono scoraggiare giovani e meno giovani disoccupati dal cercare un lavoro perché soddisfatti del livello del sussidio – il più alto in Europa – che si può ben aggiungere al ricavato di un lavoretto in nero.



Ancora di più si può essere incoraggiati ad aggirare la norma se si compara l’assegno statale a uno stipendio di primo ingresso che raramente supera i 1.000 euro. La comparazione, a prima vista, è impietosa: chi mai vorrà lavorare per mille euro al mese se può averne 780 senza far nulla?Naturalmente la discussione è scivolata (è stata fatta scivolare) sulla responsabilità delle imprese: non è il Reddito di cittadinanza a essere troppo elevato, ma il salario pagato dalle aziende a essere troppo basso. Dunque, ecco la facile conclusione, è su questo che si deve agire e non su quello.



Il ragionamento potrebbe tenersi in piedi se non fosse che per ogni mille euro destinati a finire in tasca al lavoratore ce ne sono in media almeno altri 1.200 che se ne vanno in tasse e contributi. Facendo i conti, quindi, uno stipendio base costa all’imprenditore qualcosa come 2.200 euro. Si capisce al volo che la questione è assai differente da come è stata raccontata. E appare evidente quanto sia elevato il tributo che il sistema economico versa in varie forme nelle casse dello Stato: se per alcuni si può immaginare un reddito gratuito è proprio per il salasso riservato ad altri.



La differenza tra quanto costa all’azienda un lavoratore e quanto quest’ultimo percepisce in pratica si chiama cuneo fiscale. Ed è la spina più dolorosa nel fianco di ciascuna impresa seria e di ogni lavoratore in regola che si vedono così sottrarre un pezzo importante delle loro risorse. Stabilito che la fetta maggiore della ricchezza distribuita dal sistema delle imprese torna allo Stato – che si potrebbe pertanto definire come il vero prenditore della vicenda – non si può negare che una maggiore disponibilità di soldi da spendere, un maggior potere d’acquisto, non guasterebbe.

Per questo Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno previsto nel Patto della Fabbrica firmato un anno fa che un eventuale e auspicabile taglio al cuneo fiscale – il promesso e non concesso abbassamento di tasse e contributi a carico delle imprese – vada interamente a beneficio dei lavoratori. Il relativo basso livello dei salari deriva inoltre da un’altra circostanza considerata con colpevole sufficienza: la bassa produttività del lavoro che si trascina da almeno vent’anni. Un’evenienza che può dipendere dalla capacità competitiva delle imprese e dall’efficienza generale del sistema.

Insomma, il problema c’è e va certamente affrontato. Ma per risolverlo bisogna guardare dove nessuno vuole gettare l’occhio.