È senz’altro riduttivo e ingeneroso etichettare Jeff Bezos, l’uomo più ricco del pianeta, come “padrone”. A qualificare il genio dell’uomo, oltre allo straordinario successo delle sue imprese, contribuisce la fortuna del suo investimento nel Washington Post, il quotidiano del Watergate avviato a un declino senza via d’uscita prima dell’intervento del tycoon di Amazon. Bezos, convinto che la qualità paga, ha rivitalizzato il giornale che oggi conta 900 giornalisti (più di 100 impegnati ogni giorno dietro il nemico Donald Trump), che non si limitano alla tradizionale copertura della capitale, ma anche di Silicon Valley e di altre realtà emergenti dell’attività Usa. Un gigante che rinnova la grande tradizione del giornalismo Usa all’insegna dello slogan usato per il primo spot di un quotidiano trasmesso al SuperBowl, lo spazio pubblicitario più costoso della tv Usa: “Le tenebre uccidono la democrazia”.



Stupisce, a questo punto, che la sinistra radicale Usa, guidata dalla sempre più popolare Alexandria Ocasio-Cortez, celebri come un grande successo la rinuncia di Amazon a fare di New York la seconda capitale dell’impero con la prospettiva di dar lavoro a 25mila persone. Di fronte alla protesta degli abitanti di Queens, preoccupati dai disagi (e dall’aumento dei costi, specie delle case, che ha già sconvolto San Francisco, la capitale della new economy), Bezos ha preferito fare un passo indietro. Scelta comprensibile, perché il successo del colosso dell’e-commerce si basa sul favore dei consumatori: guai a passare come uno sfruttatore (anche quando le condizioni di lavoro sono tutt’altro che civili) o, peggio, a far passare l’idea che Amazon favorisce la povertà o il disagio sociale. Scelta poco costosa, perché sono decine, anzi centinaia, le città pronte a spalancare le porte all’investimento di Bezos.



L’esito, però, è stato molto doloroso e costoso per la sinistra, almeno quello che fino a ieri rappresentava la maggioranza del filone progressista: Andrea Cuomo, il leader democratico che controlla il partito a New York, e il sindaco Bill de Blasio si erano schierati per Amazon, motivati dall’arrivo di 25mila posti di lavoro. Insomma, l’appeal del posto di lavoro non è stato sufficiente a superare l’opposizione. Forse, se si fosse arrivati a una conta, avrebbero vinto i favorevoli all’opera. Ma sarebbe stata, agli occhi di Bezos, una vittoria di Pirro.

Non è azzardato definire la contesa Usa come una sorta di “Tav americana”. Un paragone inquietante, almeno per uno che, come il sottoscritto, è favorevole all’opera. Ma è un dato di fatto che la sinistra, travolta dai costi inflitti dalla lunga crisi, stenta a rappresentare i desideri e i bisogni del suo elettorato. Dietro alla sfiducia generale c’è una lunga stagione di sconfitte, che hanno fatto arretrare il tenore di voto e, soprattutto, le aspettative generali. Come ha dimostrato Thomas Piketty, le diseguaglianze hanno ormai raggiunto i picchi della fine del XIX secolo: il recupero delle Borse, favorito dal denaro a basso costo, ha permesso ai ricchi di diventare ancora più ricchi. Il liberismo economico ha condotto a un progressivo smantellamento del welfare contribuendo ad aggravare la qualità della vita, mentre si imponeva la stagnazione secolare da cui non siamo affatto usciti. Anzi. “Ciò che distingue oggi la Cina da noi – ha scritto il New York Times – è l’ottimismo. I ragazzi cinesi stanno meglio dei loro genitori e sono convinti che i loro figli saranno destinati a stare meglio ancora. Da noi è successo l’inverso”.



Probabile che in Italia le cose siano messe peggio. Di qui il rancore e il rifiuto diffuso di novità e di iniziative che implichino comunque un rischio. Una sindrome diffusa, come abbiamo visto. Ma l’Italia, ferma da vent’anni, ha urgente bisogno di crescita più di ogni altri Paese avanzato. E la crescita richiede investimenti che, a loro volta, necessitano di quattrini. Materia prima che i mercati forniscono volentieri agli Usa, assai meno all’Italia, sovranista o no.