“Certo, del lavoro si deve parlare ma non si può ignorare il contesto. E in Italia la libertà di stampa è a rischio”. Anche nella sua relazione di chiusura – dopo aver ottenuto la riconferma – il segretario generale della Fnsi Domenico Lorusso è stato trasparente nella sua “gerarchia dei titoli” sulla crisi dell’editoria giornalistica italiana. Lo era stato anche nella lunga riflessione introduttiva alla convention quadriennale del sindacato “unico e unitario” dei giornalisti italiani: che oggi risultano “attivi” in 15mila (3mila in meno rispetto a 5 anni prima, nell’ultimo dato comunicato dall’Inpgi, l’ente previdenziale di categoria).
Alle 25 pagine di relazione Lorusso ha posto un titolo programmatico: “L’informazione non è un algoritmo. Libertà, diritti, lavoro nell’era delle fake news”. Le prime sei cartelle contengono una critica senza appello a “finanza, tecnologia, globalizzazione”, alla “visione del mondo a 280 caratteri”, all’Europa di Orbán che non è più quella “di Spinelli, De Gasperi, Adenauer” ecc. Vi si esalta la memoria di Turati vs Mussolini nel 1923 e vi si deplora come male assoluto “il signor Steve Bannon” consigliere di Donald Trump quasi un secolo dopo. Vi si trovano citati assieme Massimo Cacciari e Marshall Mac Luhan, e commemorati assieme Daphne Caruana, Jamal Kashoggi e Antonio Megalizzi. Vengono ampiamente presi a prestito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e papa Francesco come testimonial di una “libera stampa” in trincea contro i nemici della democrazia.
A pagina 7 il testo continua così (il corsivo è di chi qui riporta): “In una fase di profonda trasformazione, bisogna ripartire dalle regole generali, dal quadro delle leggi di settore per consentire agli attori del sistema di agire in un contesto normativo di certezze. Dalla crisi dell’editoria non si può uscire senza il sostegno pubblico, esattamente com’è stato per altri settori. Il tema non sembra però interessare i governi. Il precedente esecutivo non si è sottratto all’ascolto e al confronto, ma non è andato molto oltre, limitandosi a pochi interventi. Dal governo in carica, dopo l’avvio di una fase di confronto da parte del sottosegretario all’editoria, Vito Crimi, sono invece arrivati e continuano ad arrivare segnali di forte ostilità”.
Nelle pagine successive – fra un divertissement “Rousseau vs Voltaire” e una citazione dell’ex procuratore di Torino Armando Spataro – la relazione dipinge un’Italia a metà strada fra un Paese totalitario e uno infestato da squadroni della morte. Vengono nominate le testate – Avvenire, Radio Radicale, Manifesto, Libero e Foglio – che sarebbero minacciate dai loro sopravvivenza dal taglio delle provvidenze statali e indicato come “golpe in pieno agosto in Viale Mazzini” il ricambio dei vertici Rai deciso dal governo in carica. A pagina 14 si accenna quasi di sfuggita alle “cosiddette politiche labour saving”, ma non vengono mai indicati per nome i grandi gruppi privati e quotati in Borsa (Rcs, Gedi, Il Sole 24 Ore, Rieffeser, Caltagirone) che hanno fatto quadrare i loro bilanci attraverso massicci prepensionamenti e largo ricorso ammortizzatori sociali a carico (non piccolo) dello Stato. Si accusano invece i governi recenti (da Renzi a Conte) di non averli mantenuto in vita tels quels quei salvagenti di Stato alla cosiddetta libera stampa gestita dai tycoon del Paese.
Di digital media si comincia a parlare solo a pagina 21, con una citazione classica: “Al sito web del New York Times si accede soltanto per abbonamento: il quotidiano ha puntato sulla qualità e, grazie a tre milioni di sottoscrittori, i profitti hanno superato i ricavi pubblicitari”. Ma “È un modello, quello delle sottoscrizioni, non facilmente replicabile in Italia”. Qui “la maggior parte dei quotidiani è dotata di paywall, ma gran parte degli utenti preferisce per il momento le notizie gratis. Alla lunga, però, la gratuità va a discapito della qualità. Se la democrazia richiede un’informazione qualificata e di qualità, questa informazione non può non avere un costo adeguato. Per questa ragione l’imprenditoria italiana dell’informazione deve adeguarsi alla modernità, rilanciare e investire sulla qualità e sul lavoro regolare. Le imprese editoriali italiane, non solo quelle per la verità, non sono adeguatamente capitalizzate. Fino a quando continueranno a dipendere dal sistema bancario lasceranno che bilanci e piante organiche vengano vigilati dalle banche, con queste ultime che, per non mettere a rischio i propri affidamenti, chiederanno di ridurre i costi fissi”. (Quali “imprese editoriali”? Quali “banche”? Quanta “capitalizzazione adeguata”? Per quali “bilanci” e “piante organiche”?, ndr).
Nel frattempo (pagina 22) i giornalisti possono soltanto impegnarsi in una “battaglia democratica”: quella condotta in sede Ue per il “copyright” contro “la rapina dei contenuti in rete da parte dei colossi del web”. (La relazione di Lorusso è stata letta una settimana dopo che il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, è stato rimosso il giorno stesso in cui ha messo in pagina un’ampia intervista al capo di Google Italia: il gruppo in cui Calabresi secondo molte indiscrezioni avrebbe dovuto approdare, ndr).
Lorusso – e il presidente Fnsi Giuseppe Giulietti, leader dei giornalisti Rai – hanno quattro anni per provare che la loro analisi e la loro strategia sono quelle corrette per difendere il lavoro e il reddito dei giornalisti italiani (questo è il primo compito di un sindacato, più o meno “unico e unitario”). Per dimostrare nei fatti che i licenziamenti, i tagli retributivi, la precarizzazione strutturale della professione all’entrata sono causati da un “contesto” sciasciano: e non invece da una transizione strettamente industriale, che richiede risposte sindacali coerenti con l’evoluzione del mercato editoriale. Non del mercato elettorale. O ideologico.