Per i partiti e i movimenti europeisti, l’elemento centrale dei programmi della campagna elettorale per le elezioni del prossimo maggio dovrebbe essere come riattivare quell’ascensore sociale che in molti Stati dell’Unione europea (Italia in primo luogo) pare bloccato al piano terra. L’immobilità sociale svuota di significato quel principio di eguaglianza sostanziale che è (o dovrebbe essere) parte del DNA dell’Europa e a cui non mancano richiami in numerosi Trattati europei. L’immobilità sociale è anche fonte di antagonismi sociali, di rancore verso chi possiede ricchezza e opportunità grazie a una buona sorte. Fomenta, quindi, il populismo, che intercetta il malessere dei soggetti deboli traducendoli in provvedimenti dettati dalla demagogia e della strumentalizzazione del popolo stesso.



In numerosi Stati dell’Ue e, pur nei limiti assegnati loro dai Trattati, le stesse Istituzioni europee hanno ignorato le richieste di promozione sociale provenienti dagli strati più deboli della popolazione. È stata privilegiata, in modo miope, la strada della liberazione dal bisogno economico, con misure di sostegno che si sono rivelate il più delle volte forme eleganti di elemosina e di carità. Gli strati più deboli, invece, hanno sempre invocato opportunità di crescita e di riscatto sociale, percependo l’aiuto come precondizione e non come risultato di tale impegno.



Sin dagli studi di Mosca, Pareto, Michels, teorici delle élites, si riscontrava una diffusa tendenza all’autoreclutamento delle élites medesime tramite cooptazione, volte a garantire la trasmissione ereditaria del potere agli stessi appartenenti ai ceti dominanti. Più alte sono le barriere erette all’ingresso nei centri di poteri, tanto minore e fluida sarà la mobilità sociale. Se i ceti dominanti rinunciassero a definire essi stessi i parametri per misurare il merito delle persone, se nel contempo le persone stesse accettassero di essere giudicate per l’impegno profuso, i sacrifici sopportati, il talento coltivato nel tempo, se si creasse un sistema sociale informato davvero alla pari dignità sociale di tutti, con interventi di solidarietà per chi non riesce nella «gara della vita» (come la chiamava Bobbio), il merito potrebbe funzionare senza destare queste obiezioni e paure. Del resto, le Costituzione di diversi Stati dell’Ue, quando si occupano di diritto allo studio, prestano una particolare attenzione verso i capaci e meritevoli che, anche se privi di mezzi, aspirano a raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.



A metà dicembre, uno studio di Luigi Cannari e di Giovanni D’Alessio del servizio studi della Banca d’Italia ha documentato che, nel nostro Paese, le “condizioni di partenza” restano così decisive e largamente preponderanti per lo status, specie se si considerano poi anche tutti gli altri fattori ambientali come quartieri di provenienza, scuole frequentate, amicizie familiari. Basandosi anche sui dati delle indagini della Banca sui bilanci delle famiglie italiane tra il 1993 e il 2016, “uno dei canali di trasmissioni delle condizioni di benessere dai genitori ai figli è l’istruzione” e “le stime mostrano una elevata persistenza intergenerazionale nei livelli d’istruzione”. Nonostante l’istruzione pubblica e la scuola dell’obbligo, quest’ultima è in grado di compensare solo in parte le diseguaglianze di partenza. La scelta alle superiori è infatti condizionata e dipendente dalla scolarità dei genitori e “gli studenti si autoselezionano nelle diverse tipologie di istruzione secondaria (o nell’abbandono scolastico) sulla base dei risultati precedentemente conseguiti e della professione e del titolo di studio dei propri genitori. Tale meccanismo determina una segmentazione della popolazione di studenti (ad esempio tra licei e scuole professionali) fortemente correlata con le classi sociali di provenienza”. A conclusioni analoghe arrivano lavori monografici relativi ad altri Stati europei, soprattutto in Francia.

I rapporti annuali dell’Ocse documentano che per quanto riguarda l’istruzione in Italia la situazione è drammatica. Ad esempio, nella fascia d’età 23-64 anni solo meno del 18% ha un titolo di studio equivalente a una laurea, uno dei tassi più bassi nei Paesi Ocse. Lo siamo anche se il metro è il titolo di scuola secondaria superiore o il completamento di programmi di formazione professionale.

I partiti e i movimenti europeisti italiani dovrebbero, quindi, avere un interesse prioritario a proporre programmi diretti al miglioramento dell’istruzione e della formazione, come parte essenziale dell’ascensore sociale e a condividerli con i loro partner di altri Stati europei. L’istruzione e la formazione non fanno parte delle politiche europee, anche se da decenni il Fondo sociale europeo è una delle fonti principali di finanziamento della formazione professionali e programmi come Erasmus apportano un utile contributo a rendere “più europei” gli studenti universitari.

In un’ottica di più lungo periodo, si potrebbe proporre una maggiore cooperazione intraeuropea in materia di istruzione e in una prospettiva di breve periodo cercare nelle maglie del bilancio europeo fondi per finanziare borse di studio “europee” per studenti meritevoli di famiglie a basso reddito per dare loro accesso all’ascensore sociale.