Lunedì la Borsa americana era chiusa per festività. Martedì la riapertura ha coinciso con la ripresa dei colloqui a Washington con le autorità cinesi sul tema della guerra commerciale, quindi una giornata in cui gli indici – già in arrivo da un weekend lungo – cercavano una direzione di marcia, appigliandosi a segnali meramente politici. Insomma, ottimismo e pessimismo legato alla questione dazi, tutto di derivazione meramente ministeriale e della Casa Bianca. Roba quasi da rabdomanti. In realtà, un primo segnale arrivava dai dati di vendita di Walmart, la principale catena di grande distribuzione degli Stati Uniti. A dicembre, vendite stellari, tanto che il titolo in Borsa metteva a segno il quinto miglior rialzo degli ultimi due anni. E, di fatto, trascinava con sé tutti gli indici, ormai talmente pavloviani nel reagire di pancia a qualsiasi notizia (Walmart ha ottenuto quei risultati grazie a offerte speciali senza precedenti in chiave anti-Amazon, difficilmente spacciabili come credibile cartina di tornasole dello stato di salute generale dell’economia, trattandosi poi del mese dello shopping natalizio) da prendere per buona quella lettura e trasformarla nell’ennesimo motivo di festeggiamento. Ma l’entusiasmo è durato poco, i rialzi quasi tutti rimangiati e azzerati dall’andamento sempre peggiore dell’Europa, trascinata – nemmeno a dirlo – dal pessimo dato della produzione industriale italiana.



Ed ecco allora la magia, l’ennesima, come ci mostra questo grafico: il mercato, per arrivare alla timidissima, quasi frazionale chiusura in rialzo di fine contrattazioni, ha necessitato di due nuove ondate di news ottimistiche, perfettamente e plasticamente mostrate nel grafico.

Primo, l’intervento della presidente della Fed di Cleveland, Loretta Mester. La quale si è accodata allo spirito da colomba che sotto Natale ha pervaso persino un falco monetarista come Lael Brainard, membro molto influente della board dei Governatori della Fed e oggi sostenitrice della sospensione anticipata del dimagrimento dello stato patrimoniale della Federal Reserve, quelle vendite di Treasuries e Mbs a scadenza che drenano ogni mese dal mercato circa 32 miliardi di dollari. Anche per la Mester non c’è più bisogno di un taper a tutto tondo, ma basterebbe che la Fed rimettesse sul mercato soltanto gli Mbs, mantenendo a bilancio tutti i Treasuries: di fatto, più che dimezzando i drenaggi di liquidità. Ossigeno per gli indici. Ma anche in questo caso, non sufficiente a garantire rialzi stabili e strutturali: l’asfissia da collaterale è grave. Ecco quindi la terza ondata, quella determinante. Non fosse altro per la fonte da cui proveniva.



Quando dai colloqui Usa-Cina provenivano rumors di opposta direzione, ecco che Donald Trump giocava la carta, sempre vincente, del prendere tempo: di fatto, la data del 1 marzo non è più da considerarsi “magica”. Tradotto, i colloqui con Pechino potranno andare avanti anche oltre quel limite temporale prefissato, quell’ennesimo ultimatum disatteso, senza implementazione delle tariffe e dei dazi. Et voilà, anche per oggi la giornata in Borsa è andata, si è portata a casa la pagnotta. E la ghirba. Sapete a quanto a chiuso il Dow Jones, dopo una messe di ottimismo – più o meno reale – simile? A +0,03%. Praticamente, invariato. Piatto. Nonostante le vendite record di Walmart e l’intervento di due pezzi da novanta come un Governatore della Fed e il Presidente in persona.



Ora, guardate questo altro grafico, il quale ci mostra plasticamente quale rally abbia visto innescarsi l’oro dallo scorso novembre. Ora, per quanto il mondo oggi sia impazzito e le regole base del mercato azionario siano ormai desuete, se esiste una certezza in vita è quella relativa alla correlazione fra oro ed equities: non possono salire entrambi a livello di trend, non possono festeggiare lo stesso evento. Storicamente, uno celebra il pessimismo macro (l’oro), l’altro l’ottimismo (le Borse). La correlazione, invece, sta diventando preoccupante negli ultimi tempi, dopo che negli ultimi quattro anni, invece, oro e indice Standard&Poor’s 500 hanno avuto una correlazione negativa a 40 giorni del 72%. Più che normale, quasi fisiologica.

Prendiamo la giornata simbolo di martedì, invece, divenuta di fatto lo specchio degli ultimi tre mesi ma non con la magnitudo paradossale cui abbiamo assistito due giorni fa, una vera aberrazione. L’oro ha guadagnato l’1,6%, di fatto una notizia negativa – nel mondo normale – per gli indici azionari. Anche perché da inizio del 2015, un tale apprezzamento del bene rifugio per antonomasia è consistito – nel 64% dei casi, 18 volte su 28, statisticamente – con un calo medio dello 0,4% per i titoli azionari. Vederli salire entrambi, come accaduto martedì e al netto dei “stimoli” politici esterni che hanno garantito i rialzi delle equities, deve far pensare. E preoccupare.

Signori, oro e titoli azionari non possono avere entrambi ragione, se cerchiamo nel loro andamento una risposta al quesito da un milione di dollari su quale sia il reale stato di salute del mercato. E, soprattutto, quale sarà tra un mese, sei mesi o un anno. Così come non possono avere contemporaneamente ragione titoli azionari e obbligazionari. Ci sono solo due spiegazioni. Primo, l’oro non è di fatto più un bene rifugio, ne ha perso lo status. E qui, scusate ma saremmo di fronte a qualcosa di assolutamente epocale. Secondo, un nuovo, più ampio e strutturale programma di Qe, quantomeno di Cina e Usa è alle porte. Imminente. Molto imminente. Tertium non datur. Anche perché, cari lettori, l’ultima rilevazione di Bank of America relativa ai flussi i capitali nei mercati Usa, parla chiaro.

Chi sta comprando, infatti? Da inizio anno, a fare la parte del leone sono ancora i buybacks corporate, ovvero il riacquisto di azioni proprie, come mostra il grafico. E con il badile, visto che, a livello di comparazione su base annua, a oggi il loro volume fa registrare già un +78% rispetto al medesimo periodo del 2018, anno che – giova ricordarlo sempre – ha visto annunciati buybacks per 1 triliardo di dollari di controvalore, il record assoluto. E, di fatto, la conferma che Wall Street, dopo aver campato per anni di denaro facile e a costo zero garantito dalla Fed, nell’ultimo anno ha vissuto grazie al denaro rimpatriato – sempre a costo zero – dalle grandi corporations grazie allo scudo fiscale voluto da Donald Trump. Il quale, ovviamente, andava ringraziato per quel risparmio monstre sulle tasse, quindi il cash è stato quasi interamente reinvestito sul mercato attraverso il riacquisto di propri titoli.

Risultato perfetto ottenuto: indici in rialzo, Trump che twitta ad ogni record, flottante ridotto, quotazioni alte e dividendi e bonus assicurati. Tanto, in ultima istanza, paga il contribuente. Ovvero, la maggioranza di classe media che ha mandato Trump alla Casa Bianca nella speranza di vedere migliorate le proprie condizioni di vita ed economiche e invece è stata completamente estromessa – in nuce – dai benefici fiscali prodotti dallo shock della primavera 2018. E quando il denaro delle corporations, il free cash rimpatriato dall’estero, sarà finito e non potrà più alimentare il casinò di Wall Street, cosa accadrà?

Anche perché le trimestrali appena presentate hanno parlato chiaro per il 2019: l’80% delle previsioni di utile per azione è in negativo, un crollo totale, dopo trimestri interi di espansione allegra dei multipli. Nel suo ultimo studio al riguardo, Goldman Sachs prevede per il 2019 un crollo potenziale della crescita degli utili per azione dell’85% e questo grafico parla chiaro sul trend che gli indici azionari potrebbero presto imboccare, se il percorso tracciato in anticipo (3 mesi) dalla revisione della dinamica degli utili dovesse essere quello reale (ovvero, se la Banche centrali non materializzassero – e in fretta – nuovo sostegno, più o meno diretto).

Forse, cari amici, l’oro con quel suo continuo apprezzamento in parallelo con i rialzi-zombie degli indici, sta prezzando proprio questo: l’ineluttabilità di un nuovo, enorme intervento delle Banche centrali. E lo sta prezzando in duplice veste, in modalità multitask. Da un lato, sale come reazione di ottimismo pavloviano al nuovo scampato pericolo, a un intervento preventivo rispetto a quello emergenziale del 2008. Dall’altro, però, opera di fatto come un credit default swap. Peccato che il rischio di controparte contro cui ci si assicura acquistandolo, oggi è rappresentato dalla possibilità – tutt’altro che peregrina – che qualcosa vada fuori controllo nelle mosse delle Banche centrali. O che, peggio ancora, quanto si possa mettere in campo, dopo un decennio di politiche espansive, non sia sufficiente a controbilanciare la messe di criticità sottesa dalla situazione attuale. Una sua tutte: l’indebitamento record, sia pubblico che privato, in cui il mondo è criminalmente incorso come risposta alla grande crisi finanziaria post-Lehman.

L’oro parla, cari lettori. Magari si fa fatica a capirlo, perché spesso usa un suo linguaggio e ricorre a metafore. Ma parla. Anzi, sentenzia. E il fatto che le principali Banche centrali dei Paesi emergenti a livelli di contropotere geofinanziario mondiale, ovvero Cina, Russia e India, ormai da trimestri interi stiano continuando a diversificare le proprie riserve estere, scaricando dollari e comprando lingotti fisici per ammontare senza precedenti, ora non appare più una scelta azzardata. O bizzarra. Ma una lucida previsione di quanto sarebbe accaduto, quando la stamperia globale avrebbe smesso di funzionare a pieno regime. Mentre tutti cercavano doping monetario o qualche equivalente, magari il metadone dei buybacks, loro sceglievano la disintossicazione da finanza attraverso l’acquisto di lingotti fisici di bene rifugio, quello che da sempre – e per sempre – tesaurizza le aspettative di crisi. Quelle vere.

Martedì 19 febbraio, a livello di mercati azionari, è stata un’anonima, normalissima giornata di trading, stando alle cronache ufficiali. Ma guardando sotto il proverbiale pelo dell’acqua, è stata la giornata in cui la bandiera rossa di pericolo è stata ufficialmente issata sul pennone del mondo. Anche perché, ricordatevi sempre, che noi comuni mortali – come nel platonico “mito della caverna” – vediamo soltanto la versione mediatica e la proiezione “pubblica” del gioco, i movimenti di indici, obbligazioni, valute e materie prime, oro e petrolio in testa. Ma quelle securities, nel mondo finanziarizzato che vediamo, sono il detonatore, la dinamo e il filo che regge qualche centinaio di triliardi di derivati di vario genere, dagli swap monetari ai futures: stiamo giocando a tirarci una bomba a mano come fosse un gavettone. Non può durare ancora molto, questa calma apparente, questo continuo rinvio sulle ali dell’annuncio e dell’ottimismo indotto.

Per quanto sia – come è – un incidente controllato, i connotati dell’azzardo epocale emergono ogni giorno più chiaramente. E l’Europa, purtroppo, pare l’unico player globale a non averlo capito, poiché mentre tutti scavano trincee, noi costruiamo castelli di sabbia sulla battigia, litigando per lo stecchino di gelato con cui costruire il ponte levatoio. Domani, vi spiegherò in dettaglio il perché. E quale sia il rischio peggiore, il vero detonatore di un qualcosa che può portare all’implosione dell’Unione.