Chi oggi mostra sorpresa – o scandalo – di fronte all’ipotesi di nazionalizzazione della Banca d’Italia avanzata dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni continua a dimenticare che essa è da 13 anni una norma inattuata di una legge dello Stato. Di una normativa non di secondo piano: la cosiddetta “legge sul risparmio” che fra 2005 e 2006 chiuse una lunga fase di turbolenza bancaria italiana, iniziata con i crac Cirio e Parmalat e conclusa con la “guerra delle Opa” su AntonVeneta e Bnl.
A sbattere con forza il dossier-proprietà di via Nazionale non furono allora forze politiche antagoniste, populiste, sovraniste, ecc. Furono invece fior di commentatori liberisti e globalisti – ad esempio l’ex rettore della Bocconi Luigi Tabellini oppure il bocconiano d’America Luigi Zingales – impegnati a trovare qualsiasi argomento utile pur di demolire la reputazione della banca centrale italiana, fino ad allora guidata da Antonio Fazio.
Fu il crescente anti-conformismo “proto-sovranista” del Governatore a suscitare l’ostilità della finanza cosmopolita e dei suoi terminali politico-mediatici italiani: che pur di mettere in discussione l’operato della vigilanza misero nel mirino i rapporti fra le banche nazionali, da un lato proprietarie di Bankitalia, dall’altro vigilate.
L’argomento era tuttavia a doppio taglio: servì per cacciare Fazio e chiamare Mario Draghi dalla Goldman Sachs a palazzo Koch. Ma rimase nella “legge sul risparmio” firmata dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti: che tuttavia non riuscì a realizzare l’obiettivo di portare Bankitalia sotto il controllo statale. Maturato il blitz Fazio-Draghi, l’ipotesi nazionalizzatoria ridivenne subito sgradita in nome di una storica “indipendenza”, ancorché divenuta un feticcio retorico. Un “mantra” che resta oggi l’unico argomento di chi si oppone alla nazionalizzazione, difendendo a oltranza l’aggravarsi della crisi bancaria nazionale maturata dopo la traumatica uscita di scena di Fazio.