Tanto tuonò, che piovigginò: ma l’apertura – pur cauta – che l’amministratore delegato di Tim Luigi Gubitosi ha fatto ieri verso il progetto d’integrazione della propria rete fissa con quella di Open Fiber è pur sempre meglio della siccità assoluta in cui era stata lasciata dalle precedenti gestioni. Finalmente non c’è preclusione contro l’idea, l’unica che possa salvare nel tempo un po’ dell’enorme valore creato dalla Stet e dunque dallo Stato italiano realizzando quell’enorme infrastruttura telematica, destinata diversamente a un’ulteriore e definitivo declino.
Quello presentato da Gubitosi è stato dunque il piano di miglior buon senso per un’azienda senza padrone, o meglio con due padroni in lite, sullo sfondo di un più vasto conflitto che è nazionale (Italia-Francia), affaristico (Bollorè contro Berlusconi) e, a causa del mai rescisso conflitto d’interessi del Cavaliere, anche istituzionale (la Cassa depositi e prestiti del Governo giallo-verde contro un campione dell’alta finanza francese e dunque a favore del capo di un partito d’opposizione ai giallo-verdi).
Se quindi la transizione infinita dell’azienda che si chiamò Sip e poi Telecom Italia prosegue, stavolta il management ha dato una scossa – come aveva tentato di fare a suo tempo anche Flavio Cattaneo – e questo è meritorio. Certo, a monte andrebbe sanata l’instabilità dell’azionariato, tra i francesi di Vivendi bloccati sul bagnasciuga italiano dalle loro mosse platealmente azzardate nella tentata scalata a Mediaset che li ha ingessati anche in Telecom da una parte e, dall’altra, lo stesso fondo Elliott, cui va il merito – da fondo attivista qual è – di aver suonato la fine della ricreazione, ma che strutturalmente non promette, e dunque non dà, alcuna garanzia di tenuta: per mestiere un fondo del genere, ottenute le modifiche gestionali che ritiene sagge e che fanno salire il titolo, vende tutto per incassare la plusvalenza e scappa via.
C’è poi il ruolo importante – ma anch’esso fatalmente ibrido – della Cassa depositi e prestiti. Ha acquistato a suo tempo un 5% del capitale Tim che, votando con Elliott, è stato determinante per scalzare la brancaleonica e partigiana gestione Vivendi, ha fatto recentemente sapere di essere anche pronta a salire al 10%, ma di più difficilmente potrebbe fare: in particolare non potrebbe lanciare quell’Opa su Telecom, Opa a equity fresco e non a leva, che emblematicamente dovrebbe chiudere il calvario iniziato vent’anni fa dall’azienda a causa del’Opa a leva lanciata dall’Olivetti dei capitani coraggiosi dalemiani.
Non potrebbe lanciarla perché non è il suo mestiere, dovrebbe attendere che a farlo fosse l’Enel, consocia in Open Fiber o la stessa Open Fiber, per fare piazza pulita dei francesi e gestire le due aziende come dovrebbero, cioè come un unico gruppo, ma la situazione politica del Paese non sembra per niente matura per una soluzione di forza come questa.
E dunque? Dunque ben venga la forza tranquilla di Gubitosi, che ha presentato ieri una strategia realistica, solida e articolata, tirando fuori anche – sul tema specifico della Rete, che non ha eluso – una risposta insieme furba e sincera, oltre che spiritosa: “al momento sono aperte tutte le opzioni”, ha detto: “Parliamo delle 50 sfumature di rete fino alla combinazione dei business”. Inoltre, “non c’è una fine della storia predefinita in nessun senso, non sto escludendo nulla, né indicando nulla”. “In questa fase – ha aggiunto il ceo – vogliamo capire”, analizzando “fatti e cifre”.
Il resto è concretezza pacata, con tutta l’ambizione della banalità della buona gestione. E dunque l’obiettivo del ritorno al dividendo, anche se non nel breve periodo, una probabile conversione delle azioni di risparmio, 400 milioni di euro di tagli ai costi. Nessun altro esubero oltre ai 4mila dipendenti in meno che usciranno secondo l’accordo firmato a metà 2018, tra prepensionamenti e quota 100. Stile gestionale: meno chiacchiere e più fatti, come l’accordo siglato con Vodafone per lo sviluppo comune della rete 5G, negoziato in 100 giorni.
La Telecom di Gubitosi vuol tornare a essere “una società normale, dove ceo e board completano il mandato e che è capace di pagare dividendi”. Dettagli interessanti sull’operazione con Vodafone per le torri Inwit: “Vodafone avrà nella società delle torri partecipazione e diritti di governance uguali ai nostri”. Sui debiti il traguardo è ambizioso per come può esserlo in un’azienda zavorrata: 22 miliardi a fine piano.
Auguri, c’è da sperare che la normalizzazione dell’azionariato accompagni e agevoli questa, che sembra bene impostata, della gestione.