È opportuno in questa fase di sovranismo rilanciare temi come quello della politica di bilancio europea (European Fiscal Policy) e della politica tributaria europea (European Tax Policy) che sono stati cavalli di battaglia dei federalisti? Utilizzo il lessico inglese, ormai di uso internazionale, perché parlare di Unione fiscale europea è un termine ambiguo, come dimostrato, ad esempio, dalle molteplici interpretazioni, spesso divergenti, che si hanno del Fiscal compact, che l’Italia è stato uno degli Stati dell’Unione europea a ratificare (salvo poi applicarlo in modo lasco ed esprimere riserve).



Se ci fosse una European Fiscal Policy non ci troveremmo in un pasticcio come quello di queste settimane in cui, iniziata l’attuazione della Legge di bilancio per l’esercizio in corso, ci chiediamo se dobbiamo fare una manovra aggiuntiva di finanza pubblica. Una European Fiscal Policy avrebbe già previsto, per gli Stati “virtuosi”, in momenti di difficoltà, interventi “europei” per aiutarli a superarli (come fa da sempre il Fondo monetario internazionale). Si disporrebbe di eurobonds o simili per finanziare grandi infrastrutture europee (valutate a livello europeo e non da commissioni improvvisate, chiamare a fare “la voce del padrone” per giustificare con analisi cosmetiche ciò che vuole il Ministro pro tempore di turno). Si troverebbe anche modo per risolvere, in un arco di tempo concordato, i problemi del debito sovrano europeo (e, quindi, anche di quello italiano).



Credo che i partiti e i movimenti europeisti del nostro Paese debbano considerare con attenzione l’opportunità di riproporre il progetto di una European Fiscal Policy. Una base da cui partire è proprio uno studio italiano: quello di Maria Teresa Salvemini e di Oliviero Pesce “Un bilancio europeo per una politica di crescita”, pubblicato come quaderno dell’Istituto Affari Internazionali nell’estate 2007. Indubbiamente da allora molta acqua è passata sotto i ponti e nei percorsi dell’integrazione europea, ma l’ossatura è valida ed è stata in un certo qual modo ripresa dalla Cancelliera Merkel e dal Presidente Macron negli ultimi mesi. Ha anche avuto un’accoglienza non cattiva dagli Stati nordici che temono sempre che l’aumento delle risorse “europee” finisca per finanziare le dissolutezze degli Stati dell’Europa meridionale.



I punti fondanti: portare dall’1,05% del Pil europeo al 2% il bilancio comunitario e assicurare, con un’adeguata gestione collegiale, che le risorse vengano impiegate a fini di sviluppo, soprattutto là dove ce ne è una maggiore esigenza. Ciò darebbe anche nerbo al Fiscal compact e agevolerebbe il funzionamento dell’unione monetaria: la storia economica dimostra che le unioni monetarie prive di una politica di bilancio comune prima o poi si sfaldano.

Più complesso il nodo della European Tax Policy. Dalla fondazione dell’Ue a oggi i numerosi tentativi di ravvicinamento degli aspetti cruciali dell’imposizione sui redditi non hanno quasi mai avuto successo né nel contesto europeo, né, tantomeno, a livello internazionale. Prova ne sono il fallimento del tentativo di costituire sia una base imponibile consolidata comune delle imprese multinazionali (meglio nota con l’acronimo Ccctb), sia uno schema pilota di Home State Taxation per le imprese di dimensioni più contenute, sia le differenti scelte – rilevanti anche ai fini fiscali – fatte dagli Stati quanto all’obbligatorietà dell’adozione degli Ias/Ifrs in settori diversi da quello bancario e assicurativo. Anche quando si è ripiegato su iniziative dirette a favorire la semplice convergenza, queste iniziative non hanno dato apprezzabili risultati. Prova ne è il codice di condotta per la business taxation varato dal Consiglio Ecofin il 1° dicembre 1997, avente la natura di mera raccomandazione.

Il quadro esistente è molto variegato e disorganico di regimi e di criteri di determinazione della base imponibile, nonché di aliquote e via discorrendo. In un’area economicamente integrata, a moneta unica e nella prospettiva di un’unione anche politica, il perdurare delle rilevanti diversità nella tassazione delle imprese rappresenta un altrettanto rilevante costo del sistema produttivo europeo, costituito dal non pieno sfruttamento delle potenzialità dell’integrazione.

Anche un fautore della European Tax Policy come il Presidente emerito della Corte Costituzionale Franco Galli chiama “forse utopistica” la considerazione che in una prospettiva di più lungo termine le difficoltà di un sostanziale ravvicinamento degli ordinamenti tributari degli Stati membri potranno essere superate solo se si legherà l’integrazione fiscale alla soppressione del principio di unanimità e si attribuiranno poteri “sostanziali” al Governo e al Parlamento europei.

Gallo delinea un “futuro modello fiscale europeo” che “non potrà essere sganciato dal tipo di assetto federale che si darà l’Ue. E potrà anche contemplare l’istituzione di un tributo europeo federale di tipo diretto che si aggiunga all’attuale Iva e alle accise e finanzi, anche parzialmente, la spesa federale. Per l’imposizione societaria si tratterebbe di recuperare il richiamato progetto di base imponibile consolidata, come ventilato dal vertice di Bratislava, senza escludere la possibilità di istituire un’imposta determinata in base allo statuto fiscale europeo delle imprese, quale potrebbe essere una corporation tax europea sugli utili consolidati da pagare nello Stato della casa madre”. Ammette che “è un traguardo irto di ostacoli e difficile da raggiungere”, pur se “senza alternative se si vuole costruire una vera unione politica europea”.

Il nodo è proprio questo: sino a che punto nelle imminenti elezioni europee i partiti e i movimenti europeisti possono indicare la prospettiva di una “vera unione politica europea”?