Prima è arrivato Claudio Borghi (Lega), presentando nell’agosto scorso una proposta di legge. L’articolo è uno solo: “la Banca d’Italia gestisce e detiene, ad esclusivo titolo di deposito, le riserve auree, rimanendo impregiudicato il diritto di proprietà dello Stato italiano su dette riserve, comprese quelle detenute all’estero”. Sui “sovranisti” al governo sono subito piovute accuse di voler mettere le mani sull’oro per ragioni di cassa. No, ha detto Borghi, a noi interessa solo stabilire di chi è l’oro, cioè degli italiani.



Poi è stata la volta di Giorgia Meloni. Giovedì scorso è stata incardinata in commissione una proposta di legge della leader di Fratelli d’Italia, il cui senso non ha bisogno di interpretazioni: “Norme per l’attribuzione a soggetti pubblici della proprietà della Banca d’Italia”. L’annosa e complessa questione delle riserve auree vista da Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Lecce.



Di chi è l’oro di Bankitalia?

Le riserve auree, come disse qualche anno fa Salvatore Rossi, “sono state accumulate dalla Banca centrale attraverso la sua attività tipica che è quella di battere moneta, negli anni passati da sola, oggi in condominio con la Bce. Una funzione peculiare della banca centrale, su cui i partecipanti (al capitale, ndr) non possono avere pretese”. Frutto di una funzione pubblica, potrebbero qualificarsi come bene quasi demaniale ad uso di utilità generale: l’oro svolge infatti una funzione di garanzia dell’indipendenza e della sovranità del popolo. Occorre tuttavia che a tale “sostanza” corrisponda un coerente regime giuridico: si capisce che lo si voglia sottrarre ad usi contingenti, ma ciò non esclude affatto una disciplina che ne sancisca il “dominio pubblico”.



Di quale regime giuridico parliamo?

Era il regime vigente dal 1936 sino al 2013, quale poteva ricostruirsi in via interpretativa, facendo difetto da noi, diversamente da quanto accade in altri Paesi, europei e non soltanto, una chiara disposizione in materia. Si può forse spiegare che nel 1936 si evitasse di far menzione di titoli dominicali dello Stato, perché il diritto bellico allora vigente escludeva dal diritto di preda i beni appartenenti ad enti e soggetti pubblici diversi dallo Stato: era quindi opportuno che le riserve auree figurassero direttamente nel patrimonio della Banca centrale (si potrebbe dire in deposito fiduciario), la specialità della cui struttura giuridica (ente pubblico a struttura partecipativa) consentiva comunque allo Stato di mantenere una sorta di titolarità indiretta.

Perché era vero allora e non più oggi?

I problemi cominciano con la privatizzazione delle cosiddette banche pubbliche e con la “delega” della funzione monetaria al governo della Bce, con correlativo conferimento ad essa di parte delle riserve auree italiane (141 tonnellate; al momento Bankitalia ne detiene 2.452, ndr). La privatizzazione avrebbe dovuto comportare la restituzione delle quote allo Stato, dal momento che l’art. 20 r.d.l. 375/1936, allora ancora vigente individuava in una stretta e tassativa tipologia (pubblicistica) i soggetti che potevano legittimamente possedere quote del capitale dell’Istituto di emissione. La “delega” alla Bce, per altro verso, avrebbe dovuto suggerire almeno una diversa organizzazione giuridica della titolarità e della gestione delle riserve medesime.

E invece?

Ed invece non soltanto le quote sono rimaste in capo a soggetti ormai privatizzati, ma, con il d.l. 133/2013 (convertito in l. 5/2014): a) si è abrogato il citato art. 20, prevedendo espressamente che possano essere titolari di quote soggetti privati italiani ed europei, ciascuno però non oltre il 3%, così incentivando la circolazione delle partecipazioni; b) nulla si è previsto circa la titolarità delle riserve auree e di valuta pregiata, per ciò stesso lasciando compiersi integralmente il portato effettuale della legittimazione dei privati alla proprietà delle quote; c) si è viceversa e nello stesso stesso senso provveduto alla rivalutazione del capitale della Banca, portandolo da 156mila euro a ben 7,5 miliardi, “mediante utilizzo delle riserve statutarie” e, dunque, “sdoganando” una prassi, di dubbia legittimità, già seguita dai partecipanti (ormai privatizzati) per la valutazione delle loro quote.

Lei ha sollevato numerose obiezioni a quel decreto.

Ne ho seguito antefatti, approvazione e conversione, provando a mettere in luce i molti e gravi profili di illegittimità costituzionale, che non possono trovare giustificazione assolutoria evocando, come pure si è fatto, le vicende del 2011, quando, con lo spread a livelli “astronomici” e la Bce che impartiva direttive al nostro Governo (al quale poi ne successe un altro formatosi con una procedura davvero sui generis), le banche quotiste avrebbero aiutato lo Stato mediante l’acquisto massiccio di titoli del debito pubblico, ricevendone, per così dire, in cambio la legittimazione a detenere il capitale di Bankitalia, valutabile con riferimento al patrimonio e alle riserve auree, per poter così soddisfare ai parametri di Basilea 3. Magari sarebbe stato meglio trovar modo di fare riferimento a tali vicende, piuttosto che cercare di camuffare il reale portato del d.l. 133/2013, come invece e da più parti si è fatto.

Dunque l’oro non è degli italiani ma è delle banche private. Lo Stato per ritornarne in possesso dovrebbe ricomprarlo?

A questo punto diviene a dir poco molto più complesso, già sul piano giuridico, ogni tentativo di introdurre disposizioni che vorrebbero “accertare” l’appartenenza delle riserve auree allo Stato, che seguirebbe, contraddicendo e disvolendo, le disposizioni del 2013, che hanno viceversa attribuito ai quotisti pienezza di diritti patrimoniali. Non a caso il Governo, al momento finale della conversione in legge del d.l. 133/2013, rifiutò di far proprio un ordine del giorno presentato da Fratelli d’Italia inteso a”ribadire che le riserve auree sono di proprietà dello Stato italiano e non della Banca d’Italia”.

Quindi?

Ciò detto, e considerando che a fine gennaio l’oro di Bankitalia valeva 90,8 miliardi di euro e che i quotisti hanno negoziato o comunque possono negoziare i loro titoli di partecipazione ai valori di mercato (che ovviamente tengono conto dell’intero patrimonio di Bankitalia), è immaginabile che l’approvazione di disposizioni del genere di quelle suddette determinerebbe (se non altro) una eclatante battaglia giudiziaria per contestare la natura espropriativa degli effetti della riforma, con conseguenti ingenti costi a carico dell’erario e corrispondente aggravamento del debito pubblico, ove tale tesi trovasse accoglimento. D’altra parte, pur quando si volesse percorrere la strada di una disciplina che sancisse espressamente un vincolo pubblicistico a carico delle riserve auree, senza entrare nel merito della loro titolarità, lo scenario che ho appena tratteggiato non sarebbe affatto improbabile. Altro potrebbe essere il contesto, se la normativa del 2013/2014 venisse dichiarata costituzionalmente illegittima: a quel punto potrebbe pensarsi ad una disciplina degli effetti della declaratoria di incostituzionalità che scongiuri il rischio di dover pagare indennizzi delle quote al valore di mercato.

Ma l’oro dovrebbe tornare ad essere degli italiani o no?

Le riserve auree servono, perché se, per necessità o per volontà, si dovesse uscire dalla moneta unica, garantirebbero l’emissione di moneta nazionale. Chiamiamolo pure piano B, rammentando però che gli altri Paesi (e tra questi soprattutto Francia e Germania) ne dispongono, dal momento che, a differenza nostra, hanno mantenuto le riserve nelle mani dello Stato. 

Giorgia Meloni ha presentato una proposta di legge per la nazionalizzazione di Bankitalia. E’ una strada percorribile?

Il proposito è coerente con un assetto costituzionale fondato sul principio di sovranità popolare: la concreta realizzazione implica tuttavia, per le ragioni alle quali ho fatto cenno, l’attenta ponderazione dei modi per giungervi evitando (o almeno attenuando) il rischio di esborsi esorbitanti. 

Qual è la conclusione?

La questione delle riserve auree va adeguatamente collocata in un contesto che, negli ultimi anni, è stato caratterizzato, anche formalmente, da una profonda trasformazione del nostro ordinamento costituzionale: mi riferisco alla novella agli artt 81,97 e 119 Cost., che collocano ormai direttamente il vertice di formazione del nostro indirizzo politico nelle istituzioni europee, in contrasto, a mio avviso, con gli inderogabili principi fondamentali della Carta del 1948 e con la sua prima parte. Come ho già avuto modo di chiarire, anche su queste pagine, si dovrebbe aprire una stagione di riaffermazione del nostro assetto fondamentale, consentendo agli italiani di esprimersi sui nodi essenziali del rapporto con l’Ue, pena, altrimenti, la definitiva riduzione del nostro Stato ad una navicella mercantile alla mercé delle acque agitate della cosiddetta globalizzazione. E se mi è consentito dirlo, questo dovrebbe essere il piano A.