“Le aspettative di lungo termine sull’inflazione della zona euro sono ai minimi dall’ottobre del 2016, anno che vide un’azione decisa della Bce per evitare il rischio di una deflazione. In una fase d’incertezza economica come l’attuale non si tratta certo di un bel segnale: è un indizio di come il rallentamento globale stia pesando sulle attese di andamento dei prezzi al consumo”. Al di là di Pil e spread, a condizionare o misurare lo stato di salute e la possibile direzione dei mercati sono molti altri fattori, a volte nascosti agli occhi dei più. E Alessandro Magagnoli, analista tecnico e cofondatore di Financial Trend Analysis (Ftaonline), mette sotto osservazione le attese di inflazione e il dollaro canadese.
Perché in questo momento l’inflazione attesa va monitorata?
Il contratto forward con scadenza a 5 anni sulla “breakeven inflation”, cioè l’inflazione attesa tra 5 anni per i successivi 5 anni, si è portato all’1,5059%, molto al di sotto del target Bce del “vicino al 2%”, anche se al di sopra dell’1,25% del 2016, quando la Bce aveva sorpreso i mercati annunciando misure espansive – acquisti di titoli portati da 60 a 80 miliardi – decise per rispondere a stime di inflazione riviste decisamente al ribasso e a una crescita più lenta del previsto.
Quindi?
Le attese di inflazione per il 2019, a questo punto, sono di un valore che non supererà probabilmente la soglia dell’1,7%. Il recente buon andamento delle aste di titoli di Stato dei Paesi europei si spiega più con le attese di un’inflazione stabile o in calo che con un aumento di fiducia nel sistema. Non si tratta, quindi, di buone notizie per le Borse, anzi.
Cattive notizie circoscritte o abbiamo già conferme preoccupanti?
I dati sull’inflazione relativi all’intera Germania confermano le preoccupazioni. Il 30 gennaio l’Ufficio Federale di Statistica (Destatis) ha reso note le stime preliminari sull’inflazione, il risultato finale verrà pubblicato il 21 febbraio. L’indice dei prezzi al consumo è atteso in calo dello 0,8% a gennaio rispetto a dicembre (invariato rispetto al mese precedente, ma superiore alle attese fissate su un decremento dello 0,9%). L’indice è previsto in crescita dell’1,4% su base annuale, dal +1,4% della rilevazione precedente (consensus +1,6%). L’indice armonizzato dei prezzi al consumo evidenzia una flessione attesa dell’1% a gennaio dal -1% del mese precedente e un incremento dell’1,7% su base annuale. Alla fine anche il governo tedesco si è arreso all’evidenza e ha messo mano alle attese per l’anno in corso, che ora vedono il Pil 2019 in crescita solo dell’1% dalla precedente stima di ottobre dell’1,8%. Colpa soprattutto della Brexit e delle tensioni commerciali tra Usa e Cina, oltre che dell’attuale contesto fiscale a livello globale.
A proposito di Stati Uniti, come sono le aspettative sull’inflazione?
Uno sguardo alla “breakeven inflation” a 5 anni statunitense mostra dinamiche molto simili a quelle europee: negli Usa si è passati dal massimo del 2,16% dello scorso maggio all’attuale 1,62% circa.
Questi dati come impattano sulle prospettive di Wall Street?
Osservare le similitudini di comportamento tra la curva della “breakeven inflation” a 5 anni e quella dell’indice S&P 500 è quasi naturale, visto che i movimenti sono perfettamente sincronizzati. Purtroppo nessuno, in questo momento, è in grado di dire se quel valore di 1,62% sia destinato a riportarsi verso il 2%, dando quindi sostegno al proseguimento del rimbalzo delle Borse avviatosi dai minimi di fine dicembre, oppure a piegare nuovamente verso il basso, proseguendo la tendenza intrapresa lo scorso maggio. Un indizio lo si può ricavare guardando l’andamento dei tassi Usa a 2, 3 e 5 anni, attorno al 2,4%, valore che corrisponde al tasso effettivo della Fed, fissato nell’intervallo 2,25%-2,50%.
In altre parole?
Il mercato si attende che i tassi d’interesse tra 2 anni saranno più bassi di quelli attuali, un’aspettativa che di certo non è congrua con uno scenario espansivo e di inflazione crescente. Ma anche lo spread forward a termine tra i 3 e i 18 mesi flirta con il segno meno. Questo indicatore delle attese monetarie a breve termine sta dicendo che da qui a un anno i tassi, anche per le scadenze più vicine, sono attesi in calo.
Ci sono altri indicatori che vanno nella stessa direzione di un sentiment di mercato poco favorevole?
Un altro indicatore sottovalutato, ma abbastanza efficace nel percepire il sentiment nei confronti dell’economia globale, è il dollaro canadese: il Canada è uno dei maggiori produttori di materie prime e la sua vicinanza, geografica e commerciale, con gli Usa lo espone nel bene e nel male ai mutamenti di direzione sia della crescita della prima economia del pianeta sia della domanda di materie prime in generale.
E cosa si legge sul grafico del dollaro canadese?
Nella prima parte del mese di gennaio il dollaro canadese si è velocemente apprezzato contro quello Usa, passando da area 1,3665 a 1,3175 circa, in concomitanza con il forte rimbalzo delle Borse, ma al momento il ribasso grafico, che indica un apprezzamento del dollaro canadese sul dollaro Usa, si è fermato. I prezzi si stanno muovendo in un canale rialzista dai minimi di inizio 2018 e senza la violazione della base di questo canale, in area 1,3050, il rischio di una ripresa del trend crescente, che con il suo sviluppo segnala una condizione sfavorevole al rialzo del mercato azionario, resta alto.
Appunto, cosa dobbiamo aspettarci dagli indici azionari?
L’Msci World, indice che rappresenta il benchmark con il quale si confrontano tutti gli altri mercati borsistici, è in fase critica. Ha infatti disegnato sul grafico a candele settimanali un elemento hanging man la settimana terminata il 25 gennaio, figura che compare spesso in presenza di forti resistenze e che può, quindi, in caso non vengano superate, essere il punto di partenza per fasi ribassiste. Ed effettivamente in prossimità di area 2.005, massimo dell’ottava terminata il 25 gennaio, si collocano la media mobile esponenziale a 100 settimane e il 50% di ritracciamento del ribasso dal picco di settembre 2018. Le implicazioni negative derivanti dalla presenza dell’hanging man verrebbero comunque confermate solo in caso di violazione della sua base, posta a 1.968 punti circa. In quel caso ci sarebbe da temere una correzione approfondita del rialzo delle ultime settimane, con target in area 1.900 almeno. Oltre i 2.005 punti invece possibile il test almeno del livello di ritracciamento successivo al 50%, il 61,8%, posto a 2.050 circa. In ottica temporale più estesa tuttavia il quadro non è necessariamente negativo.
Perché?
L’ampiezza del ribasso dal top di settembre ai minimi di dicembre è quasi esattamente 1,618 volte (numero di Fibonacci che spesso lega onda A e onda C di una correzione) quella del ribasso dal picco dello scorso gennaio ai minimi di febbraio. Sembrerebbe, quindi, che nel 2018 si sia disegnata una classica terna correttiva ABC, che ha ritracciato quasi perfettamente del 38,2% (Fibonacci) il rialzo dai minimi del 2011. Il ribasso, sempre che si realizzi, dai massimi delle ultime due settimane, potrebbe quindi far parte di un movimento rialzista di ampio respiro, o onda |B| di ordine maggiore rispetto alla |A| vista nel 2018, o addirittura la ripresa del trend rialzista di lungo periodo.
Nel lungo termine la differenza tra questi due scenari diventa sostanziale?
Sì. Nel primo caso il rimbalzo sarà destinato a fermarsi, probabilmente prima di avere superato i 2.100 punti, lasciando il posto a un’altra prolungata discesa. Nel secondo, invece, e indizi in questo senso inizierebbero ad arrivare già oltre area 2.100, il ritorno sui massimi del 2018, a 2.250 circa, diverrebbe probabile.
Qualche consiglio agli investitori?
In entrambi i casi chi guarda al breve termine come orizzonte temporale di riferimento per l’operatività potrebbe valutare eventuali flessioni, tra 1.850 e 1.900, come un’opportunità di ingresso al rialzo piuttosto e non come un’occasione di vendita. Per chi invece predilige un’operatività di più ampio respiro la parola d’ordine è: pazienza. Meglio attendere lo sfondamento dei 2.100 punti prima di tornare in modalita’ “risk on”, quindi propensi all’acquisto di asset più rischiosi come le azioni.
(Marco Biscella)