La Goldman Sachs ha congelato (pre-sequestrato…) all’ex Ceo Leon Blankfein la liquidazione di  23 milioni di dollari di bonus. Il banchiere li aveva maturati al ritiro annunciato lo scorso settembre, dopo 12 anni al vertice della regina di Wall Street. Poco dopo è però scoppiato lo scandalo 1MDB: un partner della regina delle banche d’affari ha ammesso la sua colpevolezza in uno schema di frodi e tangenti da 7,5 miliardi di dollari nel collocamento di un fondo malaysiano. Il governo di Kuala Lumpur pretende ora risarcimenti-danni miliardari; negli Usa indagano Sec e Dipartimento per la Giustizia;  il titolo Goldman ha perso il 25% al listino per i rischi legali e reputazionali. Anche il successore di Blankfein, David Solomon, e altri tre top senior partner si sono visti imporre restrizioni precauzionali sul pagamento dei bonus.



Quasi nelle stesse ore è finito alle cronache  anche Jamie Dimon, Ceo di JPMBankAmerica: di fatto il dioscuro-rivale di Blankfein a cavallo della lunga crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Di Dimon è diventata virale una singolare battuta durante l’ultimo super-summit dei “ricchi e potenti” a Davos. Il banchiere ne è stato ospite-veterano anche pochi giorni fa, ma non ha mancato di sferzare il World Economic Forum: “È un posto dove i miliardari dicono ai milionari come la classe media dovrebbe lavorare più duramente per aiutare i poveri”. Il gran capo di JPM era stato sondato da Donald Trump per l’incarico di segretario al Tesoro (poi andato a Steve Mnuchin di Goldman Sachs). Ancora nelle ultime settimane, tuttavia, Dimon ha ribadito di essere “democrat nel cuore” e di “esser pronto a pagare più tasse”: con approccio opposto, quindi, rispetto alla riforma fiscale – giusta o sbagliata – che ha già segnato in modo indelebile il primo mandato di Trump alla Casa Bianca. In ogni caso: “Più tasse per tutti”, sollecita con apparente nonchalance il “banchiere democratico”, che ha già lasciato correre qualche voce di fanta-candidatura  per le presidenziali 2020.



I banchieri  e i loro mega-bonus;  la tassazione dei super-profitti dei giga-gruppi apolidi e dei redditi incassati a monte dai loro tycoon: lo spirito del tempo sembra ormai condensare – ai limiti dell’implosione – attorno al nocciolo della Grande Diseguaglianza Globale. Al massimo della concretezza politica se la più giovane deputata di sempre al Congresso Usa, la 29enne Alexandria Ocasio-Cortes, è stata eletta all’ultimo midterm sostenendo l’opportunità di tassare al 70% i redditi “dei più ricchi”. Al massimo della virtualità culturale se è vero che la Ocasio-Cortes è stata eletta a New York: la città di Trump, ma anche quella di Wall Street e del New York Times, bibbia dell’establishment liberal (quest’ultimo – probabilmente – accetterebbe di vedersi decurtare i redditi del 70% per qualche anno pur di abbattere The Donald; assai meno certo, invece, che Goldman e le sue sorelle preferirebbero una drastica autoriduzione fiscale a un qualche “concordato” con il Presidente in carica).



Il massimo della trasparenza – solo apparentemente ai limiti di una banale elementarietà – lo ha comunque raggiunto un’altra bible giornalistica: il Financial Times, al centro di una City che Brexit minaccia sempre più seriamente di privare dal suo “impero” globale. “I super-ricchi sono un bersaglio facile per la tassazione”: il titolo di una lunga riflessione post-Davos ha campeggiato come red alert per tutto l’ultimo weekend sull’edizione digitale del quotidiano. Do you understand?