C’è una chicca che la dice lunga sullo straniamento strategico, ma in fondo anche operativo, che vive in questa fase il gruppo Telecom, malauguratamente ribattezzato in sintesi Tim quasi ad abiurare alla base storica su cui Tim nacque, base che si chiamò dapprima Sip e poi Telecom Italia. La chicca è questa: al Festival di Sanremo, Tim sarà sponsor unico. Ma a Sanremo centro storico, e precisamente in via Palazzo dove si svolgerà il Festival, la fibra ottica non arriva ancora e si naviga a 7 mega. Tutt’attorno c’è la fibra, lì no. Onestamente ciò non accade per l’inadeguatezza pluriennale degli investimenti di Tim sulla rete in fibra, ma per un problema burocratico specifico legato alla particolare pavimentazione delle strade della cittadina, che richiederebbero un altrettanto specifica autorizzazione: ma tant’è, la fibra non c’è.



La sostanza del problema di Tim – a vent’anni esatti dall’Opa che venne lanciata il 21 febbraio 1999 dall’Olivetti di Roberto Colaninno e dall’armata Brancaleone che il bravo ma temerario imprenditore di Mantova mise insieme con lo sputo – è però ancora tutta lì: dovevano investire assai di più e non l’hanno fatto per convogliare la ricca redditività maturata in questi anni verso il rimborso del debito o meglio il pagamento degli oneri finanziari, visto che il debito è in buona parte ancora tutto lì. Debito contratto dall’Olivetti per scalare Telecom e poi, com’era ovvio, riversato direttamente dentro Telecom dalla fusione tra la controllante e la controllata. E per pagarsi i dividendi.



Ebbene: questa carenza storica di investimenti si misura dalla vetustà relativa della rete, ancora eccessivamente basata sull’infrastrutture in rame, che non consente e mai consentirà le stesse prestazioni della fibra ottica. Fibra che sta invece posando, con dovizia di mezzi e soprattutto senza l’onere di dover in qualche modo integrarsi con una rete in rame, il giovane colosso fondato dall’Enel con la Cassa depositi e prestiti quattro anni fa, Open Fiber.

Il Governo gialloverde ha avuto il merito – almeno questo riconosciamoglielo – di troncare gli indugi, una melina indecente trascinata negli ultimi anni da tutti i governi del centrosinistra, compreso purtroppo quello di Enrico Letta. Troncare gli indugi e dichiarare, bello netto, che vuole un’integrazione tra la rete di Open Fiber e quella di Tim. Ora è ovvio – e dev’esserlo perfino per i grillini, che pure di cultura istituzionale ne hanno ben poca – che il Governo non può dare ordini a una società privata com’è Tim: ma quando una società privata è concessionaria pubblica deve essere cauta prima di contraddire il Governo. E comunque il dilemma non si pone. Se Tim vorrà fare di testa sua e tenersi per sé la sua rete, liberissima, ma peggio per lei: Open Fiber ha tutte le risorse, e le possibiltà, di completare da sola la propria che renderà assai presto del tutto obsoleta quella Tim.



La vera domanda dunque è: ma possibile che a Tim non capiscano che soltanto integrando al più presto la propria rete con quella di Open Fiber riusciranno ancora a darle un qualche valore? Lo capiscono benissimo, soprattutto lo capisce il nuovo amministratore delegato Luigi Gubitosi, con gli altri consiglieri di nomina Elliott. Ma l’azionista di maggioranza relativa di Tim, che è Vivendi, da quest’orecchio non ci sente. Guidato da un affarista senza scrupoli come Vincent Bollorè, il gruppo Vivendi ha in realtà – contemporaneamente – l’arroganza di un big e la fragilità di un’azienda obsoleta. Storicamente, aveva puntato tutte le sue carte sulla tv via cavo, e per molti versi sia pur svecchiandosi ha conservato quella mentalità, una visione legata al possesso di un’esclusività di accesso che oggi, nell’epoca di Netflix, è però veramente come avere la locomotiva a vapore nell’era della corrente elettrica. E Vivendi continua a fraintendere – meglio: finge di fraintendere – che con l’avvento ormai programmato del 5G la rete fissa sarà funzionale solo se in fibra, altrimenti la connettività wireless non avrà concorrenti possibili.

Un tavolo di trattativa tra Tim e Open Fiber è stato finalmente aperto, per volere di Gubitosi. Bisognerà capire se le parti troveranno un accordo sul valore da riconoscere alla rete in rame di Tim, che è capillare –    questo è la sua vera esclusività -, ma vecchia. Quando cinque anni fa da più parti si iniziò a parlare dello scorporo e della valutazione di quella rete, Telecom – allora guidata da Franco Bernabè – fece sapere che per meno di 15 miliardi di euro non avrebbe mai preso in considerazione alcuna mossa che coinvolgesse la rete. Ora chissà dove si arriverà, ma certo molto più in basso. Citofonare Bernabè per chiarimenti.