Lunedì mattina, complice un articolo de Il Tempo, è tornata a circolare l’ipotesi di una patrimoniale immediatamente smentita dal Governo. Notiamo alcune “costanti” rispetto alle ipotesi ricorrenti che negli ultimi mesi sono state suggerite come possibile ricetta per l’Italia da studi di banche tedesche, dal Governo francese e da organismi internazionali. Si tratterebbe di un’imposta considerevole, diversi punti percentuali compresi tra il 5% e il 10%, sul valore delle case. Nelle versioni originali, qualche anno fa, si ipotizzavano diversi strumenti tecnici che dilazionassero l’esborso, per evitare effetti devastanti sui consumi e l’economia, con l’iscrizione, in sostanza, di un’ipoteca da saldare alla vendita o da estinguere secondo le disponibilità a rate.



È abbastanza superfluo dilungarsi su cosa possa significare una soluzione di questo tipo sulla “ricchezza” degli italiani e la loro “propensione” ai consumi o sulla tenuta sociale o sul dibattito politico interno. Quello su cui vorremmo soffermarci è la ragione per cui, ciclicamente, queste ipotesi riemergono. Il problema dell’Italia non è la disciplina fiscale con una sequenza di surplus primari che fa invidia a mezza Europa. Il problema dell’Italia è, oggi, un debito su Pil al 130% all’interno di un’area con le regole dell’euro in cui, tra le altre cose, non deve accadere una rivalutazione del cambio. La deflazione, come noto, è il peggio del peggio che ci possa essere per chi ha i debiti. Negli anni dell’inflazione a due cifre tutti in Italia diventavano proprietari di case. La ragione è semplice: siccome il debito non sale con l’inflazione se l’economia va bene, e i redditi salgono come o di più dell’inflazione, acquistare una casa diventa l’affare della vita.



Il percorso di riduzione del debito italiano si è interrotto nel 2008 con la crisi Lehman. Dalla metà degli anni ’90 il rapporto debito/Pil era passato da oltre il 120% al 100% mentre in Francia cresceva dal 40% al 60%. Tutto si può dire dell’Italia, tranne che non abbia creduto all’euro. Poi nel 2008 è arrivata la crisi Lehman, e come in tutte le altre economie sviluppate, il rapporto è salito anche se con tassi inferiori. Nel 2011/2012 solo in Italia, con gli effetti dell’austerity sull’economia, il rapporto è salito di nuovo fino al 130% attuale.

Facciamo la previsione più facile del secolo: siccome quest’anno, a meno di miracoli, il Pil scenderà, il rapporto salirà ancora. In una fase di recessione o rallentamento globale, un Paese come l’Italia, che viene da due recessioni in dieci anni e ha il sistema bancario a pezzi, avrebbe bisogno di fare molte più politiche anticicliche di quelle che ha fatto finora o di “pagare” il conto con una svalutazione. Ma, giusto o sbagliato che sia, non possiamo perché siamo nell’euro che in teoria, però, dovrebbe metterci al riparo, almeno, dalle “impennate” dello spread. Spendere per fare politiche anticicliche, ovviamente, può voler dire tutto o il contrario di tutto nel senso che c’è una spesa buonissima, una media e una cattivissima. Poi rimane la questione di ricominciare a fare sistema e occuparsi di una burocrazia, inclusa quella “giudiziaria”, che è passata indenne a due crisi.



Siccome nel sistema euro, quello che ci garantisce la riduzione dello spread a gennaio dopo aver soprasseduto tra giugno e dicembre, non si può fare troppo deficit, a meno che tu non sia la Francia, né salvare le banche con i soldi pubblici, fino a che non serve a Deutsche Bank, e siccome i nostri “partner” vogliono rimanere con le mani libere, l’Italia in qualche modo deve pagare l’abbonamento al club visto che non cresce, e che a ogni crisi si divarica la distanza dai Paesi core. In questa fase avremmo bisogno di più libertà sui conti pubblici non di meno e di avere il supporto incondizionato della nostra banca centrale per farci passare indenne la fase critica e magari rilanciare l’economia. Giocare nei commerci globali con una valuta più debole di quello che si dovrebbe di norma ha un costo, si veda l’esempio svizzero; in Europa no, perché si viaggia gratis sull’euro senza farsi carico del debito di chi è penalizzato, oltre che per colpe sue, anche per quelle regole e anche per la situazione in cui è entrato con tanto debito e almeno un terzo del Paese palesemente impreparato.

Il debito su Pil Italia salirà ancora e l’economia stenterà perché non si sono risolti alcuni problemi strutturali tra cui quello delle banche e non riusciamo a far ripartire gli investimenti; un po’ è colpa dell’Europa, un po’ nostra. La Germania non vuole invischiarsi troppo con la declinante Italia e il suo debito facendo fare alla Bce quello che fa la Fed, la Banca centrale del Giappone o la Banca d’Inghilterra, però ha bisogno dell’euro basso, soprattutto in questa fase delicatissima; per cui qualcuno deve pagare il conto. Il processo di unificazione europea è a metà strada; secondo noi non ci ha mai creduto nessuno tranne noi felici di avere il “vincolo esterno”, ma oggi la volontà di completarlo proprio non si vede se non mettendo nero su bianco chi ha vinto e chi ha perso.

Siccome il debito sale perché l’Italia non cresce, siccome l’Italia deve stare attenta al deficit anche in fase di recessione globale quando il resto del mondo non sa nemmeno cosa sia l’austerity, con alcuni interessanti corollari sul processo di cessione di sovranità, e siccome l’Italia non ha la valvola di sfogo del tasso di cambio a un certo punto bisogna offrire una garanzia e ridurre i debiti.

La questione di fondo rimane una sola. Ha senso impoverirsi per stare dentro l’area euro? Chi comanda in questa area e che regole ci sono? La scommessa è che saldato il conto delle regole passate e della sconfitta del processo di integrazione europea si ricreino le condizioni per una crescita. Siamo molto ma molto scettici. non fosse per il fatto che non contiamo niente e che contano i nostri concorrenti.

Sinceramente cominciamo a dubitare che esista un modo per spezzare il circolo vizioso in cui si è infilata l’Italia, con enormi colpe, all’interno dell’area euro, con il suo attuale modello economico, le sue regole e i suoi rapporti di forza politici. La Germania si vuole fare carico dell’Europa oppure la tiene in vita fino a che conviene per poi sfilarsi? Sono questioni molto complesse, perché l’ipotesi di una rottura dell’euro è un incubo a prescindere, ma le contraddizioni alla fine, in un modo o nell’altro emergono, e l’Europa ne è piena. Dovremmo cominciare a fare bene i nostri conti, come tutti, e capire fino a che punto e a che prezzo ci convenga o che margini ci siano per un nuovo accordo tra noi e “l’Europa” per poi decidere con totale opportunismo quando si presenterà l’alternativa. Oggi probabilmente no. Domani nemmeno. Ma le questioni rimangono tutte.

A proposito, è chiaro a tutti che l’urgenza di risolvere le nostre “questioni” e di riformare profondamente la nostra amministrazione fuori dall’euro sarebbe molto più impellente.

Leggi anche

SCENARIO UE/ Il "problema Italia" che decide le sorti dell'euro20 ANNI DI EURO/ Il fallimento europeo che può darci ancora anni di crisiFINANZA/ La “spia rossa” sull’Italexit accesa da Bloomberg