Prima l’Unione europea, che abbassa di colpo di un punto percentuale le stime di crescita dell’Italia, facendole precipitare dal +1,2% al +0,2%, fanalino di coda in tutta la Ue. Poi l’uno-due da ko dell’Istat: crollo della produzione industriale (a dicembre -5,5% rispetto all’anno precedente, il dato peggiore dal 2012) e allarme sulla “serie difficoltà di tenuta dei livelli economici”. Tenendo presenti il rallentamento delle economie globali, le guerre commerciali in atto o latenti e l’imminente Brexit con le possibili ricadute legate a un “no deal”, possiamo ancora definirla – come il ministro Tria – “una battuta d’arresto” oppure l’economia italiana si sta veramente e seriamente avvitando in una stagnazione che è destinata a diventare recessione? E a quel punto, non si renderà presto necessaria, in assenza di un colpo di frusta che al momento non si vede all’orizzonte, una manovra correttiva? “Diciamo innanzitutto – risponde Antonio Maria Rinaldi, professore di Finanza aziendale all’Università “Gabriele D’Annunzio” di Pescara ed economista vicino a Savona – che gran parte dei Paesi euro, e non solo, stanno registrando delle contrazioni significative per quanto riguarda la crescita. E questo dovrebbe far riflettere moltissimo non solo il Governo italiano, ma anche la stessa governance europea”.
In che direzione?
Siamo certi che finora le politiche economiche perseguite dalla Ue siano state ottimali per gli interessi dei Paesi membri? A mio avviso, no. Ecco perché sarei propenso a rivedere immediatamente la manovra, ma non – come qualcuno suggerisce – imponendo ulteriori tagli alla spesa o aumentando la pressione fiscale, bensì facendo esattamente il contrario: non possiamo più restare imprigionati nella gabbia del deficit al 2,04%, così come concordato con la Commissione, dobbiamo andare verso uno sforamento ampio, così da poter destinare le risorse aggiuntive a un piano di investimenti pubblici produttivi ad alto moltiplicatore. Questa è l’unica strada da perseguire, altrimenti si ripropone lo stesso identico errore commesso alla fine del 2011 dal governo Monti.
A destare preoccupazione è anche il fatto che le ultime stime Ue confermano invariato il gap, che dura ormai da decenni, dell’Italia: cresceremo ancora di un punto percentuale in meno rispetto alla media Ue. Insomma, non c’è nessun cambio di passo rispetto al passato, non crede?
La Ue è in enorme difficoltà, al punto tale che lo stesso Juncker, qualche settimana fa, ha dovuto ammettere che in passato si sono fatti grossi errori, come l’imposizione di una durissima austerity alla Grecia. La lezione è servita? Siamo certi che la Commissione Ue, ormai in scadenza, non abbia aperto gli occhi? E di fronte a quella che per il momento sembra essere una recessione momentanea – così almeno ce lo auspichiamo tutti – per non rischiare che si protragga anche nei trimestri successivi avrà l’intelligenza, la lungimiranza e l’umiltà, oserei dire, di proporre ricette diverse?
Non le sembra però che, in questo frangente delicato e difficile, il nostro governo sia solo in attesa di aprile, quando partiranno reddito di cittadinanza e Quota 100, individuati come le misure più efficaci per contrastare la cattiva congiuntura? Possiamo aspettare altri due mesi o non sarebbe il caso che il governo metta mano con urgenza a un’agenda economica che possa dare una decisa inversione di rotta all’economia?
Non sono d’accordo, perché il governo sta già operando in tal senso. Si è impegnato, per esempio, a rivedere il Codice degli appalti, che è oggi un enorme freno alla cantierabilità di moltissime opere già programmate e finanziate, ma bloccate da troppe farraginosità burocratiche. Io credo moltissimo in questa accelerazione sulle infrastrutture, che contribuiranno fortissimamente all’incremento del Pil.
L’esempio della Tav non depone certo a favore di questa auspicata spinta sulle infrastrutture…
Nel caso della Torino-Lione siamo di fronte a un nodo politico. Ma l’Italia non è solo la Tav, l’Italia conta 20 regioni, dove ci sono enormi necessità di attuare e rinnovare le infrastrutture per modernizzare il Paese. Penso, per esempio, alla risistemazione delle scuole o alla messa in sicurezza del territorio. Su questi fronti è doveroso procedere il più velocemente possibile.
Il primo trimestre dobbiamo considerarlo ormai compromesso, dal punto di vista della crescita, e i trimestri successivi si preannunciano già impiombati. Il 2019 rischia di diventare l’ennesimo anno perso?
Speriamo di no, perché di anni persi ne contiamo fin troppi. Vorrei però ricordare che il precedente governo aveva garantito alla Commissione Ue per il 2019 una manovra con il deficit allo 0,8%. Non oso immaginare, se questa promessa fosse stata mantenuta, che cosa sarebbe successo e in che situazione ci troveremmo oggi. Spero, quindi, che il governo italiano torni a ribadire in sede europea le ragioni della crescita, non fermandosi al deficit del 2,04%, ma liberando risorse per gli investimenti.
In realtà, sembrano spariti del tutto dai radar del governo. Anzi, non considera una cattiva notizia l’uscita di Paolo Savona, forse il sostenitore più convinto tra i ministri della necessità e urgenza di un robusto piano di investimenti?
Ripeto: gran parte degli investimenti sono pianificati e attendono solo la possibilità della cantierabilità. Quanto a Savona, in questo momento alla Consob penso sia necessaria un’alta figura come la sua, perché i dossier sulla scrivania sono assai delicati. E poi, la sua personalità è così esuberante, che non mancherà di far sentire il suo pensiero e i suoi consigli.
La lenta crescita italiana in questi anni si è appoggiata soprattutto all’export, ma la situazione internazionale si sta deteriorando. Se perdiamo anche il treno dell’export come ne veniamo fuori?
Questa è una delle grandi colpe che ho additato agli esecutivi precedenti, che hanno sempre voluto dare all’export un ruolo molto importante di traino dell’economia, ignorando però che ogni economia sana ha bisogno anche di una robusta domanda interna, purtroppo sempre penalizzata. Sia chiaro, le esportazioni sono importantissime e per un paese come l’Italia è bene avere una bilancia dei pagamenti in positivo, ma non bisogna trascurare i consumi interni.
Basterà il reddito di cittadinanza a rilanciarli?
I percettori del Rdc dovranno consumare i 780 euro e lo dovranno fare sul territorio: ciò avrà un impatto positivo diffuso. Ma, al di là dei numeri, il reddito di cittadinanza lo considero una sorta di risarcimento dovuto alle fasce di popolazione emarginate e abbandonate dalle politiche economiche durante questa lunga crisi. Moralmente mi sembra un provvedimento, temporaneo, più che giustificato.
Vista la crescita zerovirgola e le spie rosse sul cruscotto degli indicatori economici, non servirà una manovra correttiva?
Certo, ma non come si pensa. Dovrà essere correttiva nel senso di più espansiva: altro che un deficit al 2,04%, bisogna chiedere di poter andare tranquillamente oltre il 3%, per poter destinare nuova linfa agli investimenti produttivi. Questa è la rivisitazione della manovra che mi auguro. Altrimenti facciamo il Monti-bis.
Ma l’Italia ha la forza e la credibilità per poter chiedere questo all’Europa e alla Commissione Ue?
Sono convinto che a maggio ci sarà una profondissima riconfigurazione dei rapporti di forza nel Parlamento europeo e quindi non solo in Italia, ma anche negli altri Paesi, avanzeranno forze che chiederanno a gran voce il cambiamento dell’attuale modello di governance europea.
Avremo, secondo lei, un’Europa che metterà al centro dell’agenda economica i temi della crescita più che quelli dei conti in ordine?
A maggio sarà l’ultima chiamata per l’Europa: se capisce e cambia, punterà sulle esigenze del futuro, altrimenti è destinata a implodere. Non ci sarà appello.
Ma lei, guardando alle prospettive dell’economia italiana, resta ancora ottimista?
Certo, l’Italia ha incredibili potenzialità, che hanno bisogno di esprimersi. E non è un problema di uomini, ma di mezzi e di strumenti a disposizione, tarati sulle nostre esigenze e caratteristiche, che oggi non abbiamo. Il difetto dell’Europa è aver codificato degli strumenti omnibus, uguali per tutti, senza tener conto delle specificità dei singoli Paesi. Noi stiamo pagando questa standardizzazione.
A cosa pensa, in concreto?
Il modello economico tedesco, adottato in tutta Europa, è basato su stabilità dei prezzi, controllo dell’inflazione e rigore dei conti pubblici fino al pareggio di bilancio. La nostra Costituzione prevede invece un modello economico con garanzie e tutele nei confronti dei lavoratori, in primis per puntare alla piena occupazione, che con questi strumenti non può essere realizzato. Sarebbe perciò importante, per citare solo un esempio, che la Bce, attenta solo al target inflattivo del 2%, potesse avere anche un target legato ai tassi di disoccupazione, così da poter orientare le sue politiche monetarie anche verso obiettivi di piena occupazione e non solo di stabilità dei prezzi.
(Marco Biscella)