È appena trascorso un tranquillo weekend di paura, non brutale e violento come quello del film di John Boorman che nel lontano 1973 portò a casa tre nomination ai premi Oscar, ma teso con, sempre in bilico, la tenuta del Governo e il ruolo dell’Italia nell’Unione europea. In effetti, se sulla Tav Lione-Torino le due forze di governo prendono atto delle loro fondamentali e profonde differenze, si separano e si costruisce un’altra maggioranza o si utilizza l’Election Day e si va alle urne, è problema principalmente, ove non esclusivamente, italiano. Ma se il tratto Lione-Torino del più vasto “corridoio” meridionale Lisbona-Kiev dei trasporti europei non si realizza o si realizza male, il problema riguarda l’Ue in quanto si è alle prese con una materia comunitaria, concordata a livello europeo, con una serie di accordi intergovernativi, ratificati dai Parlamenti degli Stati dell’Unione e per la quale è stato creato un apposito strumento finanziario, la Connecting Europe Facility, con una dotazione di circa 30 miliardi di euro, di cui una quota non irrilevante assegnata alla Lisbona-Kiev e, quindi, alla tratta Lione-Torino.
Oggi 11 marzo, si saprà se la società italo-francese Telt, costituita per la costruzione del tunnel euro-alpino che caratterizza la tratta, varerà i bandi per la continuazione dei lavori per il traforo. La lettera del Presidente del Consiglio Conte alla Telt, presentata ai giornalisti dall’impagabile Rocco Casalino come se fosse il Trattato di Vestfalia del XXI secolo, vale – dicono a Napoli – come un semaforo rosso; ossia un suggerimento.
Tali bandi si sarebbero dovuti varare in luglio, ma sono stati frenati dalle dispute interne alla maggioranza in Italia e dalla decisione del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti di far condurre a una squadra di sua fiducia una nuova analisi economica; nonostante la relazione prodotta da tale squadra sia stata duramente criticata da tutto il mondo accademico italiano (e ridicolizzata in Francia e a Bruxelles) e nonostante la società presieduta dalla guida della squadra abbia prodotto, in parallelo, un documento altamente elogiativo della Lisbona-Kiev (di cui la Lione-Torino è parte), il Presidente del Consiglio Conte ha utilizzato tale relazione come grimaldello per aiutare il M5S (che lo ha espresso) e preso su di sé la responsabilità di differire sine die i lavori, nonché di iniziare un negoziato con la Francia e con l’Ue per rivedere “integralmente” il programma, nonostante gli accordi presi e ratificati e la necessità di nuovi accordi e nuove ratifiche (sempre che i partner europei stiano a questo gioco, che ha come obiettivo principale di consentire al Movimento 5 Stelle di presentarsi alle elezioni europee dicendo alla propria base di avere bloccato quella Tav che, nella loro narrativa, è diventata il simbolo di tutti i mali).
Alla cena delle beffe – quella della notte in cui è maturata la decisione di Conte, con tanti personaggi e comprimari da ricordare il trucido dramma di Sem Benelli – non erano stati invitati il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, Enzo Moavero Milanesi, e il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, nonostante sia loro funzione la negoziazione degli accordi internazionali e la politica economica (di cui la Tav, le infrastrutture in senso lato e le politiche europee fanno parte). Visto che tra lo sbigottimento italiano e straniero non è chiaro se vogliono continuare a fare da tappezzeria decorativa a scelte a cui non partecipano o se riappariranno, nella veste di dramatis personae (per qualche colpo di scena) di questo scombinato pasticcio in cui per dare un assist al M5S alle elezioni europee tutti hanno da rimetterci: l’Italia che lavora e che produce, dato che perde un’occasione per essere meglio collegata al resto del mondo e di aumentare occupazione e produttività, e anche l’altro partner di Governo già alle prese con le ire di parte del suo elettorato, a ragione dei tagli alle pensioni e ora costretto a difendersi anche sul fronte di un’altra parte dei propri elettori, le imprese e i lavoratori.
Nel lungo weekend di paura, si sarebbe negoziata una soluzione per tentare di salvare – come si usa dire – capra e cavoli: la Telt lancerebbe i bandi con la clausola (prevista nel diritto francese) di poterli revocare entro un lasso di sei mesi. In tal modo, si consentirebbe al M5S di andare alle elezioni cantando vittoria e si avrebbe il tempo per rinegoziare con l’Ue e con la Francia. È un marchingegno che fa acqua: da un lato la normativa francese prevede la revoca dei bandi solo in caso di eventi di forza maggiore e, da un altro, non sembra che Francia e Ue vogliano riaprire una trattativa chiusa e ratificata da anni, unicamente per aiutare il M5S italiano. L’Ue ha già annunciato che la sera dell’11 marzo verranno revocati 300 milioni di euro all’Italia se i bandi non saranno stati varati. E altri 500 più in là se tra pochi mesi i lavori non saranno ripresi.
C’è comunque il costo del differimento. Differire le decisioni su politiche e investimenti pubblici costa in tutti quei casi in cui il ritardo non è collegato ad analisi e approfondimenti per migliorare la qualità delle scelte. A livello sia macro, sia micro. E certamente la relazione del Mit è universalmente riconosciuta come strumento privo di base professionale per ingarbugliare, non migliorare, le scelte pubbliche.
Eloquenti i casi di costosi differimenti macroeconomici. Ad esempio, nel 1967, in Gran Bretagna si traccheggiò a lungo su decisioni importanti di politica economica sino a quando si dovette svalutare nottetempo la moneta con il risultato di porre fine alla “area della sterlina”. Nel 1991, firmato il Trattato di Maastricht, in Italia non si presero le decisioni conseguenti all’impegno a entrare nelle moneta unica; ne seguì una crisi finanziaria, l’uscita (per alcuni anni) dall’accordo europeo sui tassi di cambio e un durissimo programma di stabilizzazione finanziaria per poter infine essere ammessi, quasi all’ultim’ora nell’eurozona. Più di recente, il ritardo di decisioni di finanza pubblica ha comportato un aumento dello spread, il cui costo è stato stimato dalla Banca d’Italia in circa 2,5 miliardi dalla primavera scorsa.
Tema macroeconomico immediato: se differire a dopo le elezioni europee la “manovrina” per far sì che i conti siano in ordine, dato che le stime sulla crescita del Pil sono attorno allo 0,2% e non all’1% come previsto lo scorso dicembre. Se si ritarda di tre-quattro mesi, “l’aggiustamento” aumenterà almeno di un terzo in quanto si dovrà spalmarlo su un lasso più breve di tempo e lo spread continuerà a essere un balzello occulto su tutti. In materia macroeconomica, il costo del differimento finisce di solito su gravare su tutti i cittadini, i quali possono farlo pagare ai politici al momento delle elezioni.
Torniamo alla Tav. Chiari, noti e diffusi i metodi e le procedure per analizzare il costo del ritardo delle decisioni in materia di investimenti pubblici. In Banca mondiale, ad esempio, si seguivano regole standardizzate nell’analisi dei costi e dei benefici dei progetti sin alla fine degli anni Sessanta. Dalla metà degli anni Novanta, sono state innovate dal libro fondamentale di Avinash Dixit e Robert Pindyck Investment Under Incertainty; solo negli ultimi dieci anni – basta scorrere la biblioteca telematica del Social Science Research Network SSRN – sono stati pubblicati 220 lavori in materia, tutti disponibili agli iscritti allo SSRN. Purtroppo, la “relazione” sui costi e i benefici della Tav Lione-Torino non sfiora il tema, trattato peraltro in altri investimenti pubblici italiani (quali il “passante” stradale e ferroviario della Basilicata e l’introduzione del digitale terrestre nella televisione italiana). Le utilizzano altri studi sulla Tav che sia il mit sia Conte hanno preferito ignorare.
Un centro studi bolognese (Manager Ricerche) ha condotto un’analisi dei costi e benefici finanziari all’erario (non “economici” alla collettività) di non fare la Tav; senza contare i costi del ripristino del territorio, la cifra si aggira, a seconda delle ipotesi, tra i 30 e i 50 miliardi di euro, spalmati sui dieci anni di completamento dell’attuazione della tratta. Questo danno all’erario a chi deve essere addebitato? Un’analisi del costo all’erario del differimento di sei mesi delle decisioni sulla Tav porta a una stima su 1,5-2 miliardi. Anche in questo caso la magistratura contabile dovrebbe chiedersi chi lo pagherà: i dirigenti che hanno firmato le commesse per la commissione Tav? Il Ministro Toninelli?
Molto più elevati i danni all’Italia. Si prenda solo quello reputazionale, stimato, sulla base di elaborazioni econometriche di una decina di anni fa (a proposito della crisi finanziaria) in circa 15 volte quello finanziario, ossia tra i 20 e i 30 miliardi, una maximanovra di bilancio.
Auguriamoci che il lungo weekend di paura abbia portato buon senso e che oggi qualcuno dica in modo chiaro e forte al M5S, come Amedeo Nazzari nel film tratto da La cena delle beffe: Chi non beve con me – alla prosecuzione della Lione-Torino come da progetto approvato – peste lo colga!